Con il suo volo su Vienna D’Annunzio trasformò la guerra in coreografia
Fu un’azione terribilmente temeraria, pensata per stupire. Ma senza violenza
Matteo Sacchi – Mar, 07/08/2018
Nove agosto 1918: un piccolo stormo di Ansaldo S.V.A. dell’ottantasettesima squadriglia aeroplani sorvola Vienna. Sono biplani italiani da ricognizione e bombardamento. Non portano bombe però, non provocheranno vittime.
Portano parole e un poeta guerriero: Gabriele d’Annunzio. Su Vienna, quel giorno, caddero solo migliaia di volantini tricolore. Alcuni contenevano un lungo testo dannunziano che iniziava con: «In questo mattino d’agosto, mentre si compie il quarto anno della vostra convulsione disperata e luminosamente incomincia l’anno della nostra piena potenza, l’ala tricolore vi apparisce all’improvviso come indizio del destino che si volge. Il destino si volge. Si volge verso di noi con una certezza di ferro. È passata per sempre l’ora di quella Germania che vi trascina, vi umilia e vi infetta. La vostra ora è passata. Come la nostra fede fu la più forte, ecco che la nostra volontà predomina e predominerà sino alla fine…».
Una bella prosa non molto facile da tradurre in tedesco. Per questo, per il grosso del lancio 350mila copie, era stato scelto un più chiaro testo del giornalista Ugo Ojetti: «Viennesi! Imparate a conoscere gli italiani. Noi voliamo su Vienna, potremmo lanciare bombe a tonnellate. Non vi lanciamo che un saluto a tre colori: i tre colori della libertà. Noi italiani non facciamo la guerra ai bambini, ai vecchi, alle donne. Noi facciamo la guerra al vostro governo nemico delle libertà nazionali, al vostro cieco testardo crudele governo che non sa darvi né pace né pane, e vi nutre d’odio e d’illusioni…». Quando poco dopo le 9 e 20 gli aerei italiani si allontanarono dalla città era di fatto compiuta una delle più temerarie azioni aeree di tutta la Prima guerra mondiale, di sicuro la più incruenta. Eccone qui a cent’anni di distanza una breve cronistoria.
Estate 1917 D’Annunzio inizia a progettare il volo su Vienna. L’idea che il poeta partecipi ad una missione così pericolosa spaventa gli alti comandi. Dietro le insistenze di D’Annunzio che assieme a Giuseppe Garassini Gasbarino ed altri piloti aveva già partecipato a svariate missioni aeree (come il volo propagandistico su Trieste del 22 agosto 1915) iniziarono i voli di prova per testare un aeroplano adatto a una incursione così lunga.
4 settembre 1917 D’Annunzio compie con un Caproni Ca3, pilotato dai tenenti Maurizio Pagliano e Luigi Gori, un volo di dieci ore e mille chilometri: partenza da Pordenone, sorvolo di Torino e rientro alla base. La missione venne svolta senza particolari problemi ma, a ridosso della successiva partenza per Vienna, l’autorizzazione venne definitivamente negata. E i due piloti e d’Annunzio sono rischierati a Gioia del colle per il bombardamento notturno della Baia del Cattaro.
Inverno 1917/1918 D’Annunzio e i piloti a lui vicini nella continua riflessione sul problema della durata del volo hanno localizzato ormai gli aeroplani più adatti negli Ansaldo S.V.A., si lavora alacremente alle modifiche nella fabbrica Pomilio sotto la guida di un giovane tecnico che farà la storia anche dell’automobile: Ugo Zagato.
Giugno/Luglio 1918 Il comandante della 87ª Squadriglia aeroplani Alberto Masprone a fine giugno ottiene l’autorizzazione a preparare il volo da parte del generale Luigi Bongiovanni. D’Annunzio non ha il brevetto di volo, uno degli SVA 10 è reso biposto. Il velivolo modificato, si rompe in un incidente. Viene attrezzato in pochi giorni un secondo velivolo, approntato in tempo record da Giuseppe Brezzi. Non c’è altro da fare però che modificare il serbatoio del carburante a forma di sedile. Diventerà la famosa «seggiola incendiaria» del Vate.
2 agosto 1918 Viene compiuto un primo tentativo ma la nebbia fa disperdere gli apparecchi e la missione abortisce.
8 agosto 1918 Un secondo tentativo di volo verso la capitale austriaca fallisce per il vento forte. Si inizia a pensare di sospendere il tutto ma d’Annunzio insiste per riprovare il giorno dopo.
9 agosto 1918, alba D’Annunzio convoca i piloti. Pronuncia e fa pronunciare un giuramento: «Se non arriverò su Vienna, io non tornerò indietro. Se non arriverete su Vienna, voi non tornerete indietro. Questo è il mio comando. Questo è il vostro giuramento. I motori sono in moto. Bisogna andare. Ma io vi assicuro che arriveremo. Anche attraverso l’inferno. Alalà!». Alle 05:50, dal campo di San Pelagio (Padova) partono 11 apparecchi. Per orientarsi utilizzano la mappa rotante che vedete nella foto in questa pagina. D’annunzio porta al dito l’anello contenente veleno che vedete nel tondo. I velivoli del Sottotenente Francesco Ferrarin, Masprone e del S. Ten. Vincenzo Contratti vanno in avaria, devono atterrare quasi subito. Il tenente Giuseppe Sarti, invece, sarà costretto ad atterrare per noie al motore sul campo di Wiener Neustadt. Incendia il velivolo prima di esser fatto prigioniero da alcuni ufficiali austriaci.
9 agosto, 12:40 I sette apparecchi superstiti rientrano alla base dopo aver percorso in sette ore e dieci minuti mille chilometri, e oltre ottocento su territorio austriaco.
Lanciò “bombe” di eroismo e goliardia
Nel volo su Vienna c’è tutto Gabriele D’Annunzio: il commento di Giordano Bruno Guerri
Giordano Bruno Guerri – Mar, 07/08/2018 –
Nel Volo su Vienna c’è tutto Gabriele d’Annunzio, e molto di più. C’è il mito dell’eroe che rischia la vita per il bel gesto, c’è il cavaliere senza macchia e senza paura che lancia il guanto di sfida al nemico, e lo vince.
Ci sono anche il romanticismo e il futurismo, la capacità bellica e il desiderio di pace, la preparazione tecnica unita all’audacia, l’amore per la vita e la capacità di rischiarla. C’è l’anticipatore e il modernizzatore d’Annunzio, inventore di un’azione – il lancio di volantini da un aereo, per fare pressione psicologica sul nemico – ancora praticata dagli eserciti di tutto il mondo.
C’è, in definitiva, l’amore per la bellezza condotta persino nella guerra, la bellezza che guidò tutta la sua vita, insieme al ritmo e al piacere, inteso nel senso più ampio.
C’è anche la più solenne, e insieme goliardica, celebrazione della Vittoria, quella che da cento anni festeggiamo come nostra ultima.
Eppure la Repubblica Italiana, con tutta la sua enfasi su quella Vittoria, non ha saputo né voluto fare niente per celebrare il Volo su Vienna. Niente, neanche un francobollino, neppure un volo delle Frecce Tricolori. Nemmeno un «grazie» o un timido «sì, mi ricordo» per quell’uomo che – tenente volontario a 52 anni, tre medaglie d’argento e una d’oro – resuscitò persino nel nemico l’immagine dell’eroe italiano.
Chiediamoci allora perché onori e celebrazioni ben maggiori siano andati a Francesco Baracca, grande eroe anche lui, ma alla fine vinto e il cui contributo alla guerra e alla Vittoria fu inferiore a quello di d’Annunzio. Il perché è semplice: Baracca ebbe il merito di morire invece di diventare, come probabilmente sarebbe diventato, ministro dell’Aeronautica fascista. D’Annunzio ebbe la colpa di non morire. Mentre edificava e ci lasciava il Vittoriale, patrimonio d’arte e di storia unico al mondo, attraversò il fascismo – fra l’accondiscendenza e l’opposizione – senza mai aderirvi davvero, senza mai ribellarsi davvero. Proprio come la maggior parte degli italiani.
E forse è proprio questo il motivo del suo castigo: di essere stato, una volta tanto, proprio come gli altri italiani del suo tempo.