Dove orinare?
È tutta questione di… riconoscenza.
Rassegniamoci. L’Italia è il pisciatoio del Mediterraneo.
Sono giunto a questa conclusione, qualche giorno, fa ascoltando le parole del ministro Tria il quale, nella sua ultima relazione in Parlamento, e successivamente in occasione del discorso tenuto durante la cerimonia per l’anniversario della fondazione della Guardia di Finanza, ma già lo aveva fatto prima di questi due eventi ufficiali, ci ha informati sul nostro livello di deficit. Ci ha detto che può essere negoziato solo in accordo con l’Europa, e che non possiamo assolutamente aumentare il debito pubblico, per non compromettere il grado di fiducia verso il nostro Paese. Pena le inevitabili ricadute finanziarie sul risparmio degli italiani.
Ma, sopraffatti dalle notizie sulla Aquarius, sulla Lifeline e sulla revisione del Trattato di Dublino, gli italiani hanno prestato scarsa attenzione alla reale portata del messaggio del Ministro dell’economia. Hanno totalmente sottovalutato che, in buona sostanza, il Prof. Tria ha dato l’“altolà” alla parte economica del contratto di governo.
Ed allora, mi sono chiesto: qual è stato il momento in cui noi italiani abbiamo smesso di interrogarci sulla ragione per cui il nostro Paese non può compiere scelte autonome in materia economico-finanziaria? Quando abbiamo smesso di riflettere sulla nostra subordinazione all’Europa, sul nostro non poterci determinare e sull’obbligo di dire “signorsì”?
Ci ho riflettuto a lungo, e credo che il momento storico in cui si è verificata questa resa intellettuale, prima ancora che politica e dialettica, sia da ricondursi alla fine della Seconda Guerra Mondiale. Diciamocela tutta: l’Italia è uscita sconfitta dal secondo conflitto mondiale. L’Italia ha perso la guerra. Ciò nonostante, ha avuto il trattamento del vincitore. Eh sì, perché in maniera molto più sostanziosa e pregnante, la nostra nazione ha goduto dell’European Recovery Program, meglio conosciuto come “Piano Marshall”, ideato ed elargito dagli Stati Uniti d’America. È indubbio che la liquidità immessa nell’Italia devastata dalla guerra ha fortemente contribuito al fenomeno degli anni ’50 e ’60, conosciuto come “boom economico”.
Tuttavia, altrettanto innegabilmente, assieme ai soldi, gli statunitensi hanno introdotto nel nostro Paese anche i loro costumi, la loro mentalità, i modelli sociali e anche quelli consumistici. La penetrazione dell’idea di un mondo occidentale buono, giusto, generoso, confessionale non ha fatto altro che radicalizzare la contrapposizione con l’oriente sovietico. E questa è stata soltanto una delle prime vere contropartite ottenuta dagli USA in Italia: demonizzare l’Unione Sovietica quale esportatrice dell’odiosa ideologia comunista. In nome di ciò, il nostro Paese è stato strumentalizzato. Certo, non in maniera del tutto inconsapevole, specialmente da parte dei nostri governanti dell’epoca e non senza quel placet, da parte di questi ultimi, che storicamente consente di non poter parlare di vera e propria imposizione sull’Italia da parte degli Stati Uniti. Ciò non toglie che in cambio del trattamento dei vincitori, abbiamo aperto il nostro territorio alle basi militari americane, in funzione antisovietica; abbiamo acconsentito alle contaminazioni tra servizi segreti; abbiamo offerto le nostre pudenda alle manovre incrociate, perché non si realizzasse il compromesso storico. Insomma, mentre la Germania compiva il processo di revisionismo storico circa il nazismo, in Italia non ci siamo neppure sognati di compiere la stessa operazione culturale verso il fascismo.
La ragione?
Molto semplice: non ne avevamo bisogno. Sempre dal mio punto di vista, antropologico-mentale, l’esserci profferti come centro strategico nel Mediterraneo ci ha mondato dal peccato mortale del fascismo (e persino dell’emanazione delle leggi razziali), senza passare dalla penitenza di una revisione intellettuale ad ampissimo spettro. Tutto questo, nel corso dei decenni, si è tradotto in una “tradizione” culturale secondo la quale noi italiani siamo predestinati alla dipendenza e, col tempo, questa idea si è trasformata in realtà.
E così, mentre il sovrano ed autonomo Regno Unito ha potuto scegliere di non farlo, la piccola Cenerentola economica e finanziaria di nome Italia è entrata a far parte dell’Unione Europea, con l’aberrante cambio 2:1, che ha contribuito ad inginocchiare le famiglie italiane. In più, con il tetto di Maastricht del 3% (notoriamente deciso in meno di un’ora e senza nessuna base teorica), e con la troika che ci impone le diete e ci dice chi, in casa nostra, ci può governare e chi no. Ecco perché, con una rivoltante assuefazione intellettuale, non ci stiamo facendo più domande.
Siamo il popolo del Sacro Romano Impero, la cui lungimiranza politico-economica si è fondata, specialmente in seguito alla conquista di ogni nuovo territorio, sulla necessità di mantenere le forme di governo proprie dei popoli conquistati, stringendo così alleanze con i governanti autoctoni. Siamo il popolo della tradizione comunale, delle signorie, dell’umanesimo, delle grandi scuole di diritto.
Una sola domanda: è così difficile sforzarci di ricordarlo?
Alessandro Bertirotti si è diplomato in pianoforte presso il Conservatorio Statale di Musica di Pescara e laureato in Pedagogia presso l’Università degli Studi di Firenze. È stato docente di Psicologia per il Design all’Università degli Studi di Genova, Scuola Politecnica, Dipartimento di Scienze per l’Architettura ed è attualmente Visiting Professor di Anthropology of Mind presso l’Universidad Externado de Colombia, a Bogotà; vice-segretario generale della CCLPW , per la Campagna Internazione per la Nuova Carta Mondiale dell’educazione (UNEDUCH), ONG presso l’Organizzazione delle Nazioni Unite e il Parlamento Europeo, e presidente dell’International Philomates Association. È membro della Honorable Academia Mundial de Educación di Buenos Aires e membro del Comitato Scientifico di Idea Fondazione (IF) di Torino, che si occupa di Neuroscienze, arte e cognizione per lo sviluppo della persona. Ha fondato l’Antropologia della mente (www.bertirotti.info).
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