La prima guerra civile italiana
Nel nuovo speciale di Storia in Rete (allegato al numero di giugno della rivista a euro 9,90) intitolato Savoia vs Borbone si mettono a confronto le posizioni di alcuni storici su un tema molto caldo: il Risorgimento
Matteo Sacchi – Sab, 23/06/2018
Nel nuovo speciale di Storia in Rete (allegato al numero di giugno della rivista a euro 9,90) intitolato Savoia vs Borbone si mettono a confronto le posizioni di alcuni storici su un tema molto caldo: il Risorgimento. Il volume contrappone le ragione dell’Unità d’Italia con quelle di chi sostiene che il Regno delle Due Sicilie ebbe solo a perdere dall’annessione alla Monarchia sabauda.
Qui abbiamo sintetizzato, per quanto possibile, gli argomenti presentati dai due «schieramenti». La rivista presenta interventi e interviste tra gli altri di: Pino Aprile, Alessandro Barbero, Sergio Boschiero, Gennaro De Crescenzo, Gigi Di Fiore, Dario Marino, Emanuele Mastrangelo, Aldo A. Mola, Pierluigi Romeo di Colloredo. Il dibattito resta aperto.
Altro che briganti, fu una resistenza contro un’invasione
Quali sono gli argomenti più forti di coloro che sostengono che il Regno delle Due Sicilie con l’ingresso nel regno di Italia ebbe – economicamente, socialmente – solo da perderci? Lo speciale di Storia in rete intitolato Savoia vs Borbone ne fa una belle cernita, attingendo alle opere di molti degli autori più noti nell’aver cercato percorsi diversi da quelli della storiografia più battuta sul Risorgimento: da Gennaro De Crescenzo a Pino Aprile passando per Gigi di Fiore.
Partiamo dall’economia. Per quanto la pubblicistica inglese, sin dalle lettere di William Ewart Gladstone del 1851, descriva il regno borbonico come un luogo arretratissimo, gli storici che rivalutano i Borbone pongono l’accento su quelli che secondo loro sono chiari segni di sviluppo del Regno. Il più noto è il primato ferroviario della Napoli-Portici, la prima strada ferrata della Penisola (lunga 7,5 chilometri) del 1839. Ma sono molte le industrie specializzate del Sud, spesso nate direttamente con patrocinio Reale, che sono state riscoperte negli ultimi anni: le Reali Officine di Mongiana (armi), una cantieristica sviluppata, il perfezionamento a livello altissimo delle tecniche di produzione delle ceramiche… Si pone anche molta attenzione ai dati statistici che – pur con l’affidabilità limitata dell’epoca – lasciano in più casi intendere come i livelli occupazionali del Sud erano più alti di quelli di alcune regioni del Nord; e anche l’apporto alimentare medio era maggiore.
Tutti dati che, invece, precipiterebbero verso il basso dopo «l’occupazione» piemontese. Una occupazione che, secondo la maggior parte di questi autori, si sarebbe volta rapidamente in predazione di ricchezze. Secondo alcuni, come Pino Aprile (lo ha sostenuto nel suo saggio Carnefici, 2016), addirittura in un vero e proprio genocidio. I metodi utilizzati contro i «briganti» (etichetta che funzionava benissimo per delegittimare i sostenitori del passato regime) furono quanto mai brutali.
Ed è questo uno di quei temi in cui la storiografia che potremmo definire «borbonica» è riuscita a mettere in piena luce episodi che, indubbiamente, furono molto violenti. Un esempio può essere il caso della distruzione dei paesi di Pontelandolfo e Casalduni. Nei pressi dei due abitati un contingente di 40 bersaglieri e 4 carabinieri, nel giugno del 1861, venne aggredito da bande di legittimisti sostenute dagli abitanti locali. I soldati del Regno d’Italia vennero prima costretti alla resa e poi massacrati (si salvarono soltanto in due). La risposta del generale Cialdini a questo atto, inumano anche per i criteri del tempo, fu ancora più inumana. Ordinò di fare terra bruciata, distruggendo completamente le due località. Gli ordini prevedevano non venissero passati per le armi donne e bambini. Ma andò diversamente…
Il livello di violenza dello scontro tra «briganti» e truppe regie fu altissimo. Come è chiaro che la tassazione elevata e la mancata eliminazione del latifondo colpirono duramente la popolazione meridionale. Secondo molti storici i quali rivalutano l’amministrazione borbonica, gli effetti furono così gravi da spiegare il calo demografico che, secondo la documentazione disponibile, sembrerebbe caratterizzare buona parte del territorio meridionale. Il genocidio di cui appunto parla Pino Aprile. A questo andrebbero sommate politiche chiaramente volte a favorire le industrie del Nord del Paese e a far gravare tutti i costi del conflitto sugli «sconfitti».
Abbastanza, secondo alcuni, per attribuire il divario nord-sud non a una situazione preesistente ma proprio dalle scelte portate avanti da Casa Savoia e dai suoi ministri intenti a trattare il Sud alla stregua di una colonia, più che di un «pezzo» di una nazione unitaria.
La povertà meridionale era già lì, Savoia l’unico futuro
Alcuni dei dati presentati dalla storiografia che potremmo definire, semplificando un po’, «pro borbonica» vengono accettati anche dagli storici che continuano ad attribuire un valore essenzialmente positivo al Risorgimento. A cambiare è semmai il modo in cui vengono valutati. Come si capisce bene leggendo gli interventi sullo speciale di Storia in rete di Aldo A. Mola o Pier Luigi Romeo di Colloredo. Partiamo proprio dalla Napoli-Portici su cui ritorna Romeo di Colloredo. Il primato è indubbio. Peccato che poi le ferrovie del Regno delle Due Sicilie abbiano continuato a crescere a ritmo lentissimo e prima dell’Unità sia stata realizzata solo un’altra novantina di chilometri di binari. Al Nord nel frattempo la crescita era diventata frenetica con centinaia di chilometri realizzati ogni anno. E il Regno d’Italia in seguito portò il ritmo della produzione ferroviaria a quasi 400 km l’anno nel primo decennio post unitario. Le industrie del Sud avrebbero poi prosperato soprattutto in regime protezionistico e quindi sarebbero state ontologicamente fragili. Questa fragilità di base, figlia di iniziative tutte fatte dall’alto, sarebbe stata la causa del loro deperimento, non la rapacità piemontese. Quanto alla felicità dei sudditi borbonici: spiegherebbe poco i 220 calabresi morti combattendo a fianco di Garibaldi e i moltissimi siciliani che scelsero subito di schierarsi con la spedizione dei Mille. Quanto al brigantaggio, si insiste sul fatto che esistesse ben prima dell’arrivo dei Savoia e che fosse il risultato dell’arretratezza economica di quei territori che erano tutt’altro che felici anche sotto i Borbone. Un esempio? Nel 1828 il Cilento si rivoltò. Il motivo? La tassazione troppo alta. Il risultato finale? Il villaggio di Bosco da cui era partita l’insurrezione venne distrutto e dato alle fiamme dalle truppe borboniche. Insomma una situazione pre-esistente che dopo l’unità ha preso semplicemente un’altra direzione. Aldo A. Mola insiste invece molto sul fatto che il Regno delle Due Sicilie non è stato travolto dai Savoia ma semplicemente era inevitabilmente destinato all’estinzione. L’Europa intera stava andando verso lo sviluppo di Stati nazionali. E i Borbone erano politicamente isolati e fragili. Sarebbe bastato Garibaldi da solo con i suoi 40mila volontari e la vittoria del Volturno (2 ottobre 1860) a determinare la fine del Regno delle Due Sicilie. Le cui classi dominanti aderirono molto rapidamente al nuovo Regno d’Italia, ottenendo un’ampia rappresentanza politica d parlamentare.
E qui si entra nella parte più calda del dibattito, quella sul genocidio. Per la maggior parte degli storici accademici il crollo demografico del Sud è solo apparente e dipende in buona sostanza dal fatto che i rilevamenti demografici borbonici erano realizzati in modo sostanzialmente approssimativo. Non è possibile rintracciare, almeno secondo Emanuele Mastrangelo, che ribatte direttamente alle tesi di Pino Aprile, una qualunque volontà specifica del Governo italiano sabaudo di colpire la popolazione del Sud. Esiste la questione del brigantaggio certo, causò migliaia di vittime, ma niente di paragonabile ad altri casi europei coevi di insorgenza, come le guerre carliste in Spagna (1833-1840 e 1872-1876)).
Ampio spazio è anche dato alla vicenda del forte di Fenestrelle dove vennero imprigionati (tra il 1860 e il 1870) i militari fedeli ai Borbone e che negli ultimi anni è stato spesso definito come un «lager». A partire da Alessandro Barbero, sono molti gli storici che hanno ridimensionato i termini della durezza carceraria a cui vennero sottoposti i prigionieri. La loro non fu certo una vacanza ma non risultano affatto le migliaia di morti (per alcuni 40mila), citate da alcune fonti, si ridurrebbero a circa 40 in cinque anni. Si sarebbe passati dall’oblio al mito senza tappe intermedie.
http://www.ilgiornale.it/news/cultura/guerra-civile-italiana-1544140.html