Un manoscritto del 12 settembre 1862

Un manoscritto del 12 settembre 1862
Scritto da Michele Di Leone

Un articolo molto interessante scritto da Michele Di Leone su Cosimo Giordano, uno dei più famosi briganti, e i suoi rapporti con la gente che viveva nella zona di Massa dopo l’unità d’Italia.

Nel periodo del Risorgimento, dell’unità d’Italia e del brigantaggio Meridionale, il comandante della Guardia Nazionale di Faicchio, chiedeva al Sottoprefetto di Cerreto Sannita, come regolarsi per quanto avvenuto in quel giorno, nell’allora Villaggio di Massa. (1)

Addì 12 Settembre 1862 AL Sig. Sottoprefetto
di
Cerreto Sannita

Si è rapportato che la Guardia Nazionale del Villaggio di Massa è composta di circa 60 individui, i quali sono rimasti senza comando giacchè il luogotenente Giò Petrillo si è ritirato in Faicchio, ed il secondo tenente Giuseppe
Iacobelli si è ritirato in Cerreto, la guardia non presta alcun servizio né di giorno e né di notte, tanto più che non vi esiste posto di guardia in quel villaggio, ed è in gran pericolo essere aggredito dai briganti perché situato sotto le falde del Monte Acero; perciò la prego ordinare sollecitamente a questo sindaco di aprire il posto di guardia, e dirmi come debba regolarmi per gli ufficiali emigrati. (2)

Come si può o si potrebbe dedurre dal manoscritto, anche Massa era assalita dai briganti e minacciata parecchio per giustificare la presenza di 60 guardie Nazionali e due comandanti. Ma perché tanta sorveglianza e tante minacce? Sul brigantaggio meridionale di quel periodo sono stati scritti montagne di trattati ma molto contrastanti fra di loro. Ma i Massesi con chi erano? Con i Piemontesi, e quindi per l’unità d’Italia, oppure con i briganti filoborbonici? Vincenzo Cuoco affermava “le vedute dei patrioti e quelle del popolo non erano le stesse: esse avevano idee diverse, diversi costumi e finanche due lingue diverse”. (3)
Dopo la sconfitta dei Borbone e l’unità d’Italia, anche a Massa, come in tutti i paesi vicini e in tutta l’Italia meridionale, la crisi rivoluzionaria provocò una profonda frattura fra le classi dominanti meridionali, le classi dell’alta borghesia e dell’alta classe ecclesiastica. I religiosi che non avevano incarichi dal regno, dallo stato, dalla gerarchia ecclesiastica, cioè i religiosi che portavano “le toppe alle sottane” (4) pativano la fame e i cafoni con le “pezze al culo” (4) erano con i Borboni.
Le classi borghesi ed ecclesiastiche sotto qualsiasi dominio, ebbero sempre la meglio, sui poveri contadini, braccianti e salariati. La borghesia e l’alto clero ecclesiastico, finanche con la Repubblica Partenopea che predicava “fraternità, uguaglianza e legalità” ebbero privilegi e lo stesso con Giuseppe Bonaparte e con Giocchino Murat. I poveri contadini etichettarono i borghesi della Repubblica Partenopea col detto “Si chiama giacobbino chi tiene pane e vino”. (5) I Francesi abolirono la feudalità e diedero origine alla proprietà privata: non si pagarono più i pedaggi sui ponti, sulle strade e tante altre tasse. Però la terra, anche dopo l’Unità d’Italia, non fu data ai contadini, non avendo questi i mezzi per coltivarla e la borghesia ne approfittò.
La maggior parte della popolazione, era ignorante, perché non si era mai dato priorità ed impulso con finanziamenti all’istruzione. I cosiddetti “Galantuomini”, ricchi possidenti, non lasciarono le proprietà che avevano acquistate, anzi usurpate, con il beneplacito di chi governava, erano liberali e quindi con i Piemontesi.
Tutte queste ingiustizie e promesse mai mantenute, la fame, la povertà diedero inizio al brigantaggio che, con la caduta dei Borboni, raggiunse l’apice della sua storia.
La maggior parte delle autorità ecclesiastiche e dei parroci benestanti, influiva sulla popolazione più povera che era molto devota al re borbonico e la incitava contro la guardia nazionale Piemontese. Poi “il comportamento superbo e a volte offensivo dei Piemontesi nei confronti della gente meridionale, l’accento perentorio delle ordinanze, che sembravano rivolte più a terre da conquistare che non a popolazioni con le quali cooperare, avevano deluso anche chi era stato sostenitore dell’intervento Piemontese”. (6)

La nostalgia dei Borbone
Le manifestazioni per il monarca borbonico, corrispondevano ai sentimenti della maggior parte della popolazione. Il padre dell’ultimo re Borbone Ferdinando II, si era accattivato la benevolenza dei più poveri e nella sua visita del 9 febbraio 1852 a Cerreto, passò per Massa in località detta oggi Epitaffio dove si soffermò, con grande acclamazione di popolo capeggiata dal parroco di Massa, arciprete don Benedetto Festa. Il re per l’occasione lasciò a Cerreto, una elargizione di ben 100 ducati da distribuire ai poveri. Per l’occasione scriveva il Mazzacane in “Memorie storiche di Cerreto Sannita” (Liguori Editore, pag. 237):

“A ricordare il viaggio del re si volle innalzare in “Campo dei Marsi”, lungo la strada che da Cerreto mena a San Salvatore, su un valico dove il monarca si era soffermato, detto oggi dell’Epitaffio, (in Massa di Faicchio) una colonna marmorea fatta lavorare a Napoli da Iacobelli a proprie spese, che attestasse l’affetto dei sudditi e la riconoscenza per le grazie ricevute. Il monumento fu realizzato rapidamente e, benché variamente danneggiato, tuttora esiste. Vi fu apposta la seguente iscrizione:

AD ETERNA MEMORIA
DEL GIORNO 9 FEBBRAIO 1852
IN CUI L’AGUSTO MONARCA
FERDINANDO II PER LA PRIMA VOLTA
QUESTI LUOGHI FELICITANDO
QUI FERMAVASI
E DECRETAVA
POTERSI COTRUIRE IL PONTE AL TORELLO
DOVERSI
QUESTA STRADA CONSERVARE



Il 30 Maggio di quello stesso 1852, giorno onomastico del re, se ne festeggiò l’inaugurazione con una cerimonia solenne. Fin dal 27 il cavaliere Iacobelli, che teneva il comando supremo delle guardie urbane per speciale privilegio concessogli dal sovrano, aveva impartite istruzioni ai dipendenti con la precisione minuziosa che la circostanza richiedeva. La mattina del 30 si unirono in Cerreto alle milizie del paese anche quelle di Guardia, Pontelandolfo e Morcone, e dopo essersi messe in quadro in Piazza San Martino sfilarono verso il luogo dove il monumento sorgeva.Erano precedute da due guardie d’onore, da dodici gendarmi a cavallo e da sei guardie venute da Campobasso e Caserta. Seguiva uno stuolo di autorità e di privati, mentre l’intervento di cinque bande musicali rendeva più brillante la marcia.
Sul posto, rispetto alla colonna, era stata eretta una magnifica orchestra e dopo la benedizione cento voci cantarono un inno dettato per l’occasione da Filippo Iuliani e musicato dal maestro Giuseppe Paoletti. Seguirono gli spari a salve, le grida di “viva il re” e poi fece ritorno con lo stesso ordine in Cerreto, ove nel duomo fu cantato l’inno ambrosiano. Discorsi in lode del sovrano, recite di svariati componimenti poetici, luminarie, balli fino a notte inoltrata chiusero la festa tra la generale letizia.”
Nel 1822 la diocesi di Telese Cerreto, dopo varie vicende, era stata unita a quella di Alife e i vescovi avevano preferito la sede di Alife a quella di Cerreto. Il re Ferdinando II con la sua venuta a Cerreto, ordinò la separazione delle due Diocesi, che avvenne con bolla del 6 luglio 1852, ed il vescovo che per primo si insediò in Cerreto Sannita fu Mons. Luigi Sodo che andò due volte in carcere, per la sua devozione ai Borboni. Per questo, il 7 Novembre 1860 fu costretto a fuggire a Napoli, dove fu arrestato e rinchiuso nel carcere della Concordia. Tornato a Cerreto il 15 giugno 1861, dopo pochi mesi, sospettato di favorire il brigantaggio filoborbonico fu nuovamente arrestato e portato nel carcere di S. Maria Apparente. Fu prosciolto il 17 Febbraio del 1862, con grande soddisfazione e gioia dei fedeli di tutta la sua Diocesi, che lo amava per la sua grande carità verso i più poveri.
Al contrario di lui, il suo predecessore Mons. Gennaro De Giacomo che preferiva la sede di Alife a quella di Cerreto, fu vescovo di grandi spiriti liberali. Nel 1863 fu eletto senatore del nuovo regno d’Italia e quando nel 1874 lasciò il governo della sua diocesi, andò ad abitare in un piccolo appartamento, nella reggia di Caserta, offertogli dal re Vittorio Emanuele II.
Purtroppo, anche il nostro comune ebbe un prelato martire dell’Unità d’Italia.

Il 7 settembre 1861, alle ore 2 di notte, fu massacrato nella sua casa dei Casali di Faicchio, il sacerdote liberale Don Giulio Porto, ed il suo domestico ferito da una masnada di briganti. Per il mostruoso misfatto accaduto, il comandante della guardia nazionale di Faicchio, si ribellò con minacce di dimissioni, chiedendo immediati rinforzi all’intendente di Cerreto Sannita, anche perché le guardie alle sue dipendenze erano incompetenti e al momento del pericolo e delle aggressioni si tiravano spesso indietro. (7)
L’Unità d’Italia e il brigantaggio
I primi anni dell’Unità d’Italia, per il Meridione furono anni difficili e di grande confusione, con processi improvvisati e con esecuzioni spesso di innocenti. In tutte le province avvennero aggressioni e rappresaglie incontrollate, sia da parte dei briganti filoborbonici che da parte dei piemontesi. Il fenomeno non risparmiò la circoscrizione di Cerreto Sannita. Da documenti dell’epoca si legge: “Il giorno 11 Agosto 1861, giungeva a Pontelandolfo un distaccamento di 45 soldati piemontesi e quattro carabinieri, tutti comandati dal tenente Bracci. Erano giunti per sedare alcuni disordini sorti il 7 Agosto in occasione della festa di San Donato. Appena essi si accorsero di un imminente attacco dei briganti, ossia dei reazionari borbonici, pensarono di ritirarsi a San Lupo, sede del comandante della guardia nazionale Achille Iacobelli. Quasi a metà strada (in località Prainella – collina San Nicola ?), non potendo avanzare per la presenza dei briganti, furono costretti a dirigersi verso Casalduni, ma non trovarono via di scampo. Furono tutti, eccetto uno, barbaramente massacrati.” (8) la reazione non si fece attendere: tre giorni dopo, i soldati piemontesi, al comando del Col. Negri, entrarono in Pontelandolfo, sparando su chiunque incontravano.
Il paese fu dato alle fiamme, tranne alcune abitazioni di noti liberali. Stessa sorte toccò a Casalduni.
Con giudizi affrettati e sommari, con leggi da tribunale da guerra, furono fucilati circa 140 civili tra cittadini e briganti. I cittadini non sapevano come comportarsi: oggi con i piemontesi e per l’unità d’Italia, domani con i briganti e gli evviva per Francesco II.
Il cavaliere Achille Iacobelli, come dal racconto del Mazzacane ricordato, era un fedelissimo dei Borboni e comandante supremo delle guardie urbane della circoscrizione di Cerreto Sannita; con l’arrivo dei piemontesi cambiò partito rimanendo al comando della guardia nazionale del nuovo Regno d’Italia.
L’arciprete don Benedetto Festa, parroco di Massa dal 1841 al 1881, saggiamente si mantenne neutrale e così non ebbe pressioni ed aggressioni né dai piemontesi e né dai briganti.

Cosimo Giordano
La maggioranza dei capi dei briganti, non era patriota, ma era soltanto dei delinquenti, che per sfuggire alla giustizia si erano ritirati nelle montagne, facendo sequestri, delitti e rappresaglie. Soltanto pochi soldati del disciolto esercito borbonico, combattevano veramente per il loro re “u re nuosto”.
Il capobanda del nostro circondario, era Cosimo Giordano. All’età di 16 anni uccise l’assassino di suo padre perché non gli aveva saldato un piccolo debito. Prosciolto per questo suo delitto, si arruolò nell’esercito borbonico. Il Vigliotti in “San Lorenzello e la valle del Titerno”, lo ricorda con il grado di sergente della gendarmeria borbonica. Altri storici lo presentano soltanto come stalliere, incaricato della pulizia e strigliatura del cavallo del suo capitano. Il Pescitelli, negli atti del convegno svoltosi a Cerreto S. dal 3 al 12 gennaio 1986 “Brigantaggio meridionale e circondario Cerretese” così lo descrive “inizialmente egli fu incorporato nell’esercito borbonico fra i carabinieri a cavallo e, inabile al servizio attivo, fu scelto come trabante (attendente): in questa sua qualità, a Napoli, al quartiere dei Granicci, rubò una borsa contenente 800 ducati”. Per questo e altri misfatti, per non incorrere nelle mani della giustizia, si diede al brigantaggio. La banda di Cosimo Giordano era formata da circa 30 elementi. Superava questo numero, quando si univa con altre bande dislocate sul Taburno.

Cosimo Giordano

Di Cosimo Giordano se ne raccontano tante. Due meritano attenzione, una perché molto particolare ed un’altra perché riguarda un massese. La prima riguarda la corrispondenza tra l’arciprete don Luigi M. parroco di Piedimonte, allora di Alife, oggi Piedimonte Matese ed il brigante Cosimo Giordano.
“Caro arciprete, immediatamente letta la presente spedirete per persona sicura sul monte Mutri, alla casella dell’arciprete Orsini di Cusano, ducati 212, più quattro progiotti (cioè prosciutti) e dieci paio di caciocavalli, altrimenti, per la Madonna, quanto mai vi credete io verrò per dietro, passerò il muro ed oltrecchè vi taglierò la testa per quanto mi fotterò tutte le vostre nipote. Regolatevi. Cosimo Giordano brigante.”(9)
Non meno singolare e immediata fu la risposta dell’arciprete, il quale così replicò:
“Caro Cosimo! Collega mio bello! Ricevo la tua lettera per posta. Per l’amore di Dio! Non mandare lettera per la posta perché mi fai andare in Carabozza (prigione), e poi, come farò, vuoi 212 ducati e io dove li prendo, io sono un misero arciprete che vivo con la S.Messa, e poi mi spasso anche io a fare lezioni d’arrovoglia quesumus ai miei nipoti e mi spasso a fare qualche furto… sempre però col santo timore di Dio. Tu stai allupato, non sono due settimane che ti mandai per mezzo del mio cocchiero Gaetano cento ducati e ancora ne vuoi che vuoi venire dalla parte del giardino a tagliarmi la testa. Ai fatto tutti gli affari tuoi; tagli sta capo de cazzo, e non sai che io tengo quattro nipoti che sono più briganti di te e di me.
Devi sapere che questi miei nipoti tengono la patente di ladri civili, cosa che io e te non abbiamo. Basta, con i colleghi bisogna parlare franco ci ci, quando vuoi venire fammi avvisare. Accetta dieci paia di presotta che ti mando martedì per Gaetano e ti abbraccio ritenendoti per il mio chiù stretto collega. Il tuo collega Arciprete Luigi M…”. (10)
La seconda così è ricordata dai nostri antenati:
Eusebio Tacinelli, nato a Massa nel 1821, era intento a zappare il suo pezzo di terra, alla selva Palladino di Massa che il re Ferdinando II, come dopo descritto, aveva fatto dissodare. Assorto nei suoi pensieri e contento di aver finalmente un terreno di sua proprietà, improvvisamente vide apparire una quindicina di briganti a cavallo; grande fu la paura, non sapeva cosa fare, se scappare o nascondersi.
Resosi conto che i briganti lo avevano visto, fece finta di continuare il suo lavoro. Uno dei briganti scese da cavallo e gli andò incontro. Terrorizzato si stava facendo sotto, quando il brigante accortosi del suo immenso disagio, gli disse: “Non aver paura ! Sono Cosimo Giordano”; il povero Eusebio si fece bianco, bianco. “Vai sulla Banca (11) e dì al fattore, “ha detto Cosimo Giordano, di mandargli: cinque prosciutti e dieci panegl’di pane”. (12) Eusebio andò e ritornò con soltanto due prosciutti e cinque pezzi di pane; allora il capo brigante con voce irata disse: “Ritorna dal fattore e digli di mandarmi ancora dieci prosciutti e venti panegl’. Altrimenti scendo con la banda e taglio la testa a lui e a quella puttana che tiene con sé.” Eusebio andò e dopo un poco di tempo, ritornò con quanto chiesto, accompagnato da tre inservienti del fattore perché il carico era abbastanza pesante. Il brigante prese un prosciutto e due pezzi di pane e li regalò al povero contadino, che felice e contento fece ritorno a casa, raccontando con enfasi, l’accaduto a tutto il villaggio di Massa.
Cosimo con la sua banda proseguì per le “Cesi” di San Salvatore poi per il ponte al “Torello” dove doveva assalire un convoglio di carrozze di ricchi benestanti.
Si vuole solo ricordare “il re Ferdinando II, risanò le finanze pubbliche riducendo per primo le sue rendite personali e poi quelle della corona. Riordinò l’amministrazione, eliminò le spese superflue, diede nuovo assetto all’economia, promosse i commerci e l’industria siderurgica […] dotò la capitale dell’illuminazione a gas; […] inaugurò la prima ferrovia d’Italia […] ridusse le imposte, realizzò grandi opere pubbliche, come la bonifica del Volturno assegnando 50.000 moggia di terra bonificata a più di 1.000 famiglie di contadini ”. (13)
A Massa, frazione di Faicchio, fece dissodare, la selva Palladina, dando un pezzo di terra a tutte le famiglie Massesi.
Napoli, era la terza capitale d’Europa; la marina mercantile, era la seconda d’Europa, era il terzo paese del mondo per lo sviluppo industriale. Certo non era la terra promessa, però fatto sta che i cittadini del nord già emigravano prima del 1860, mentre i nostri del sud, pur essendo stato sconfitto lo stato borbonico, il brigantaggio e fatta l’unità d’Italia, furono costretti ad emigrare dal 1870 in poi, per terre assai lontane in cerca di un avvenire migliore. Ciò dimostra che il meridione ed in particolare la nostra provincia non ebbe né benessere né giustizia e legalità e né i terreni promessi alle famiglie più povere.___________
1. In quei tempi la “cittadina” di Massa, veniva denominata villaggio.
2. Rapporto fotocopiato dall’archivio storico del dott. V. Petrucci, nel periodo di sua presidenza del Archeoclub di Faicchio.
3. V. Cuoco, “Saggio storico sulla rivoluzione napoletana”, Bari 1913.
4. Così li descrive, Pietro Zerella in “Preti, contadini e briganti ”, Stampa Edigrafica Morconese, 2000.
5. Cfr. P. L., op. cit. in Samnium, 1970, n. 3-4, pag. 173.
6. V. Mazzacca, “Repubblica Partenopea e Brigantaggio”, nota 2, pag. 90, Ricolo Editore, Benevento 1894.
7. La guardia nazionale dei primi tempi del regno d’Italia, era formata da volontari e quindi poco addestrata; così le sessanta guardie di Massa.
8. V. Mazzacca, “Repubblica Partenopea e Brigantaggi”, Ricoli Editore, Benevento 1894.
9. Ibidem.
10. Ibidem.
11. La “Banca”, confinante con la selva di Massa, in quei tempi, era una grande azienda agricola di proprietà della Contessa Nicastro.
12. “panegl’d’pane” erano grandi pezzi di pane che superavano i due chilogrammi.
13. Pietro Zerella in “Preti, contadini e briganti ”, pag. 18, Stampa Edigrafica Morconese, 2000.