Nord senza mercato e Sud povero. A chi ha giovato davvero l’Unità d’Italia? La risposta di quattro storici
di Dino Messina
Se consideriamo anche le altre grandi celebrazioni, il cinquantenario nel 1911 e il centenario nel 1961, dobbiamo ammettere che questo centocinquantesimo coincide con il periodo di maggiore messa in discussione dell’Unità. Complici due visioni antagoniste che si nascondono sotto i nomi di questione meridionale e questione settentrionale e che, persa ogni istanza nazionale, hanno conservato soltanto un’accezione rivendicativa. Come se le ragioni del Sud fossero sempre in contrapposizioni a quelle del Nord. E viceversa. In una gara a chi sia convenuta meno l’Unità d’Italia, alimentata da una letteratura storiografica spesso basata su dati falsi, che dipinge ora un Regno delle due Sicilie come una delle aree più prospere d’Italia ora un Nord che ha dovuto rallentare la sua corsa verso l’Europa a causa della palla al piede del Sud arretrato. Chi ha davvero ragione in questa contesa? È possibile onestamente rispondere alla domanda a chi sia davvero convenuta l’Unità d’Italia?
«Stando alle statistiche più recenti, il quadro è meno scontato di quanto si possa pensare — risponde Piero Bevilacqua, docente di storia contemporanea alla Sapienza di Roma e fondatore dell’Istituto meridionale di scienze sociali —. Nel 1861 i contadini del Sud e quelli del Nord erano ugualmente poveri ma quel che è più interessante è che al momento dell’Unità il saggio reale dei salari negli Stati italiani era diminuito rispetto al livello del 1700. Una statistica sui lavoratori edili parla di una diminuzione dei salari vicina al 40 per cento. Nel 1871 il reddito pro capite nell’industria del Nord era del 15 per cento superiore a quello delle industre nel Sud, mentre nel 1891, il reddito pro capite tra i contadini del Sud era del dieci per cento superiore a quello del Nord. Una situazione equilibrata, nella quale vanno considerate le differenze delle varie regioni all’interno della grandi macro aree: la ricca Lombardia ha una storia diversa dall’arretrato Veneto, così come la Campania o la Sicilia erano più sviluppate rispetto alle poverissime Basilicata e Calabria. Il vero divario da considerare resta comunque quello dell’Italia intera con il resto dell’Europa sviluppata, i cosiddetti Paesi first comers che avevano oscurato il primato raggiunto dagli italiani nel Cinquecento grazie all’edificazione degli Stati nazionali».
Il dualismo italiano, secondo Bevilacqua, comincia a manifestarsi negli anni Ottanta dell’800, con la creazione del triangolo industriale e si accentua a mano a mano sino a raggiungere il picco nel 1951, quando, hanno scritto Paolo Malanima e Vittorio Daniele in un articolo per la «Rivista di politica economica» del 2007, il Mezzogiorno contribuiva soltanto al 22 per cento della produzione aggregata nazionale, sebbene in esso vivesse il 37 per cento degli italiani. Il divario, diminuito dopo il 1973, si è aggravato negli anni Novanta del Novecento: «Il prodotto pro capite del Sud rispetto al Nord passa dal 66 per cento del 1973 al 56 del 1995-97, per poi recuperare modestamente e attestarsi al 59 per cento nel 2004» scrivono Malanima e Daniele. Secondo Bevilacqua, «le statistiche e una ricerca storica non orientata da ideologie recriminatorie» possono farci affermare che «l’Unità è convenuta soprattutto alle grandi industrie del Nord che hanno trovato nel Sud un tranquillo mercato per il consumo dei beni. Senza contare il contributo offerto dalle rimesse degli emigranti grazie alle quali la lira faceva aggio sull’oro». Per Bevilacqua, dunque, non si può dire che il Sud sia «stato la palla al piede» del Paese, anche considerando contributi non misurabili come le opere di grandi scrittori e pensatori, da De Sanctis e Verga a Croce e Pirandello.
Giulio Sapelli, ordinario di storia economica all’Università statale di Milano, già direttore di ricerche all’Ecole des hautes études en sciences sociales di Parigi, ha una visione diversa: «L’Unità d’Italia — dice — è certo convenuta al Sud quanto al Nord anche se la costruzione di uno Stato non ha significato la creazione di una nazione che è comunità di destino. I grandi Stati europei hanno edificato prima le fondamenta e le mura, poi il tetto. Noi abbiamo cominciato dal tetto con una lingua di ceto che non è mai diventata cultura del popolo e quindi economia, secondo l’equazione di Adolph Berle. Un Paese così non poteva che avere un’economia divisa, dove a guadagnarci di più è stato il Sud. E mi riferisco non solo all’inserimento del Mezzogiorno in un contesto nazionale moderno ma anche, banalmente, alle risorse drenate dal Nord al Sud. Ci si è mai chiesti perché il divario tra Nord e Sud si è allargato proprio quando è aumentata la spesa sociale a favore di quest’ultimo? Forse avevano ragione i fisiocratici, quando distinguevano tra regioni parassitarie e regioni produttive».
Per Giuseppe Berta, professore di storia contemporanea alla Bocconi e autore nel 2008 di una saggio intitolato «La questione settentrionale» (Feltrinelli), Sud e Nord avrebbero avuto un destino ben più misero senza l’Unità: «Come avrebbe reagito il Regno borbonico alla crisi di fine Ottocento quando cominciarono le grandi migrazioni e si fece sentire la concorrenza delle derrate agricole provenienti dalla Russia e dall’America? Del resto, il Nord non avrebbe potuto agganciarsi alla grande espansione internazionale come fece l’Italia in età giolittiana né partecipare da protagonista al miracolo economico del secondo dopoguerra». Il fatto è, osserva Berta, che Milano ha sempre avuto il vezzo di maledire il contesto unitario, come dimostra il «Viaggio in Italia» di Guido Piovene (Mondadori, 1957). Un fatto retorico che non ha impedito di coglierne i vantaggi.
Autore di una «Breve storia dell’Italia settentrionale» (Donzelli, 1996), e del recente «Gli Stati italiani prima dell’Unità» (il Mulino), Marco Meriggi, professore alla Federico II di Napoli, oltre a considerare i dati quantitativi (nel 1860 il reddito medio pro capite in Italia era il 70 per cento rispetto a quello francese e il 45 per cento di quello inglese, la siderurgia del Settentrione rappresentava lo 0,46 della produzione britannica mentre quella del Mezzogiorno era dello 0,04) si è chiesto da cosa sia nato nel Sud quel sentimento anti-settentrionale che è speculare all’anti-meridionalismo del Nord. «Il Risorgimento — osserva Meriggi — l’hanno fatto soprattutto i settentrionali, e i grandi eventi dell’Unità sono avvenuti al Nord». Ciò non ha impedito che molti vantaggi fossero raccolti al Sud, dove nel 1861 l’85 per cento della popolazione adulta era analfabeta, mentre in Piemonte il 50 per cento sapeva leggere e scrivere. È vero che con i Borbone si pagavano meno tasse (nel 1859, 16,11 di lire per abitante contro le 24,45 del regno sabaudo), ma è anche da considerare quanto poco si spendesse per il bene pubblico: nel Regno delle due Sicilie 0,23 lire pro capite per l’istruzione contro le 0,60 del Regno di Sardegna. Senza considerare la rete stradale: 126 chilometri ogni mille chilometri quadrati nelle regioni del Centro Nord contro i 108 chilometri per chilometro quadrato nel Mezzogiorno e nelle isole.
Il Nord all’inizio drenò soldi al Sud perché più indebitato anche a causa dello sforzo bellico: il primo bilancio del regno unificato era di 2.402,3 milioni di lire, di cui 1.321 era il debito del Regno sabaudo, 657,8 quello del Regno delle due Sicilie, 219,3 della Toscana, 151,5 quello della Lombardia. Ma senza l’Unità, il Sud non avrebbe avuto strade e ferrovie, non sarebbe stato integrato in un contesto moderno, non avrebbe avuto contributi e assistenza. E del resto, il Nord industriale sarebbe stato privo di un mercato e della manodopera che costituì la linfa dello sviluppo. «Questione meridionale e questione settentrionale sono espressioni che sottintendono una penalizzazione — conclude Meriggi — e forse andrebbero superate a vantaggio di un’assunzione corale delle debolezze e delle responsabilità».
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