Nuove curiosità storiche – Benedetto Croce (1922)

Nuove curiosità storiche – Benedetto Croce (1922)
UNA VISIONE DELL’ULTIMA NAPOLI BORBONICA
di Benedetto Croce

Dicembre 2015

Gli Usi e costumi di Napoli e contorni descritti e dipinti, opera diretta da Francesco de Bourcard (1), sona un magnifico libro, che mi meraviglio di non veder lodato e celebrato e ricercato come si dovrebbe, e che forse adesso comincerà a svegliare intorno a se questi meritati sentimenti, adesso che, come tanti altri libri, — dopo la rarefazione bibliopolica prodotta dalla guerra, — è diventato prezioso e quasi introvabile.

Contiene cento disegni acquerellati, di cui ben quarantasette sono di Filippo Palizzi, ventisei del Duclère e gli altri dell’Altamura, del Mattei, del Martorana, del Ghezzi e di Nicola Palizzi, incisi per la maggior parte da Francesco Pisanti; e cento scritti illustrativi, composti dal noto romanziere popolare Francesco Mastriani (2)

dal filologo e giornalista Emmanuele Rocco (1), da Carlo Tito Dalbono, storico fantasioso, padre del pittore (2), da Giuseppe Regaldi, che s intrattenne a Napoli, e viaggiò le provincie meridionali, ed ebbe ammiratori e amici tra noi; da E. Cossovich, poeta dialettale e popolare, e autore, tra l’altro, della canzone Santa Lucia (3); da Luigi Coppola, autore di strenne e di un volumetto di versi Il liuto, e che poi fu giornalista del Fanfulla, col pseudonimo il Pompiere, e diè vita per qualche tempo alla parola pompierata (freddura); da Achille de Lauzières, anche giornalista e poeta romantico, di cui si ha una raccolta di versi Sirio, pubblicata nel 1843; dal siciliano G. E. Bidera, attore drammatico e poi scrittore; da Federico Quercia, che ho conosciuto vecchio, provveditore agli studi nel regno d’Italia; da Giuseppe Orgitano, e dal direttore stesso della raccolta, il De Bourcard.

La parte letteraria ha quel sentimentale e quell’umoristico o festevole commisti, con aggiunte considerazioni morali e sociali, che era di moda nella letteratura romantica, specialmente napoletana.

Nondimeno, è ricca d’informazioni, né vi manca certa vivacità descrittiva. Si legga come saggio l’articolo su La capera (la pettinatrice), dovuto alla penna del Mastriani. Dopo aver dato la genesi storica del personaggio, di origine piuttosto recente (perché succeduto al parrucchiere del tempo delle parrucche), il Mastriani descrive il tipo medio di quella professionista, che il Palizzi disegna nella pagina a rincontro. “La capera è una un giovinetta popolana, per lo più gentile e aggraziata… Si chiama ordinariamente Luisella, Giovannina, Carmela; ella veste sempre con molta nettezza ed anche con alquanta ricercatezza per il suo stato: ma in particolar modo il suo capo debbe essere una specie di mostra, di campione, di modello, non pur per le donne popolari, bensì per quelle di civile condizioni… Egli è ben facile riconoscere la capera tra un crocchio di giovani donne. Eccola, è la più alta, la più svelta, la più elegante; il suo capo è il meglio acconciato, la sua veste la meglio formata, i suoi piedi i meglio calzati, perocché ella non porta in tutte le stagioni che gentili stivaletti al pari di bennata damina. Colle mani ai fianchi, col piede sinistro sporto innanzi, colla testolina lievemente inclinata di lato, ella sembra una baiadera in atto di danzare una cachuca. Ella parla sempre, sa i fatti di tutti, ed in ispezialità in materia amorosa: è l’oracolo delle sue vicine. Ma le illustrazioni grafiche formano la maggiore attrattiva del libro, segnatamente quelle del Palizzi. Quale grazia nelle figure femminili, la Lavandaia, la Impagliatrice di sedie, la Nocellara, la Fioraia Quale brio nel Banditore di vino, nel Pulizza-stivali, nell’Oliandolo, nella Scrivano pubblico, nel Ciabattino!

Quale senso drammatico nelle scene della Messa votiva e degli Zingari! Sarebbe da ricercare la storia di queste illustrazioni grafiche del costume popolare, che cominciarono più propriamente nel Seicento, insieme con la letteratura dialettale riflessa e burlesca, e che si tinsero d idilliaco nel Settecento, e di vaghezza e di pittoresco romantico nella prima metà nell’Ottocento. Bel tema, che addito e passo oltre. Anche per Napoli abbiamo nel Settecento una serie di “costumi incisi”, di cui conosco solo fogli sparsi, ciascuno dei quali ha sotto la figura un distico o un motto in vernacolo: dell’Ottocento, una simile pregevole serie, ma in litografia, fu pubblicata da Gatti e Dura. Tuttavia, se non m inganno, il precedente immediato dell’opera del De Bourcard — precedente che essa non imita ma segue con piena libertà — è un libro che nel 1840 e anni seguenti venne in luce a Parigi: Les francais peints par eux-mèmes, composto appunto di articoli di vari autori e d’illustrazioni di vari artisti, tra i primi dei quali erano il Balzac, il Nodier, il Janin, il Karr e tra i secondi il Grandville, il Meissonier, lo Charlet (1). E forse un primo tentativo d imitazione di questo libro è il grazioso volumetto, adorno d’incisioni in rame:

Napoli in miniatura, ovvero il popolo di Napoli e i suoi costumi, opera di patri autori pubblicata per cura di Mariano Lombardi (1). I “patri autori” erano: Nicola Castagna, Raffaele Colucci, Ferdinando Petruccelli (della Gattina), G. Torelli, G. Valeriani, G. Somma, e altri.

Circa quel tempo, Francesco de Bourcard ideò la grande opera, alla quale attese per molti anni. E chi era Francesco de Bourcard? Un oriundo svizzero, nipote del maresciallo Emanuele de Bourcard, capitano generale del regno di Napoli. Il nonno era nato a Basilea nel 1744, era entrato ai servigi di Francia, e aveva partecipato coi reggimenti svizzeri alla guerra dei Sette anni. Nel 1787 venne a Napoli come ufficiale istruttore e vi rimase stabilmente. Nella spedizione del 1798, il generale De Bourcard occupò Roma, che i francesi avevano evacuata lasciando presidio in Castel S. Angelo; e si rese famoso per la intimazione mandata a quel presidio, in cui minacciava che ogni colpo di cannone sparato sulla città avrebbe costato la vita a uno dei francesi ricoverati nell’ospedale. Rioccupò con l’esercito napoletano la città eterna nel settembre del 1799, e vi restò un anno e vi accolse il nuovo papa Pio VII (2).

Il nipote, come accade nelle famiglie forestiere che si stabiliscono presso di noi, presto trasformate dall’ambiente, era del tutto napoletano di sentimenti e di abitudini, e amatore altresì della storia patria, collezionista di libri e manonscritti e documenti.

Morì nel 1886 (1). Chi lo conobbe dice che una sua idea fissa era di difendere il nonno dalla taccia che gli storici gli avevano data per quella poco cavalleresca e poco umana intimazione ai francesi di Castel S. Angelo. Vero è che il 1860 doveva udire 1 intimazione del Cialdini al generale Fergola, difensore della cittadella di Messina, concepita in tali termini da gareggiare con quella del vecchio troupier De Bourcard.

Il libro degli Usi e costumi si cominciò a pubblicare nel 1847 e richiese per esser condotto a fine quasi venti anni, durante i quali solo la perseverante fermezza del suo compilatore poté vincere le difficoltà che venivano dall’indisciplina dei compilatori, artisti e letterati. Il libro attraversò così le rivoluzioni del 1848-47 e del 1859-60, e giunse a compimento nel giugno del 1866 (2). Si possono curiosamente osservare, in alcuni punti di esso, i segni dei rivolgimenti accaduti. Nella prefazione del primo volume si celebrano le opere di pubblica utilità compiute “sotto il regno del provvido re Ferdinando II, che felicemente ne regge” (p. 7). Ma nel volume secondo (p. 228) il Dalbono accenna che i Borboni avversavano 1 istruzione popolare, perché (dice) quei sovrani un “videro sempre a capo dell’ istruzione la rivoltura e l’abbattimento dei troni”; e poco più oltre (p. 228) il De Bourcard medesimo, citando la filastrocca infantile: “Uno, due e tre, E lu Papa non è re, E lu Re non è papa, E la vespa non è apa, ecc.”, stima opportuno aggiungere questa nota (che direi più infantile della filastrocca commentata), allusiva alla “questione romana”,

che allora, tra il 1860 e il 1870, era giunta allo stato acuto. “Questa canzone, che è antichissima, prova chiaramente, che fin dai tempi più remoti nel popolo napoletano vi era il sentimento che il potere temporale non era per il Papa”. Nientemeno! Compiuta la laboriosa stampa, un liberale e letterato, l’Andreoli, ne dava l’annunzio in un articolo (1), del quale trascrivo alcuni periodi: “In Italia, come dappertutto, il passato se ne va; ed in Italia meno che per tutto altrove, e è da rimpiangerlo. Ma se delle cose che oggi se ne vanno nessuna merita propriamente di esser rimpianta, ve ne ha di quelle che meriterebbero di esser ricordate Poco più oltre che si fosse indugiato, delle tanto singolari costumanze di Napoli non sarebbe rimasta maggior traccia che di quelle di molti altri popoli passati già negli oscuri domini della storia… Fortunatamente per Napoli, l’amore, l’abilità e la costanza del De Bourcard l’hanno ormai sottratta a tale pericolo”.

Oggi, a guardare le figure disegnate pel libro del De Bourcard dal Palizzi e dagli altri artisti, par di vedere una Napoli fantasticamente travestita, una Napoli che più non esiste, ma della quale gli uomini della mia generazione ricordano molti aspetti, nella loro fanciullezza ancora superstiti: la Napoli degli ultimi anni dei Borboni. Nessun’altra rappresentazione può pascere, al pari di questa, gli occhi desiderosi e curiosi, e soddisfare l’immaginazione.

Che se poi si desiderasse di pascere anche gli orecchi, consiglierei (mi si consenta la digressione) di recarsi alla Biblioteca Nazionale, nella sala dei manoscritti, e chiedere quello che porta la segnatura IX. AA. 38, nel quale un Domenico Palmieri, detto Ciccione, “conosciutissimo”, come si definisce, “da tutta la famiglia reale (D. G. )”, raccolse i “termini e voci di tutto quello che si vende in questa bella città”: raccolta che lesse al re Ferdinando II e alla regina Maria Teresa e presentò al ministro Del Carretto e al marchese de Maio e al duca di San Cesario, e dedicò al cav. Biraghi, tenente colonnello della R. Gendarmeria.

Un vocìo assordante sale da quelle pagine: i gridi della più varia intonazione, modulazione e acutezza vi s’incrociano e si soverchiano l’un l’altro. Uh! quant è bella! è oro! è oro! — grida il venditore di uva bianca; e quello che vende uva nera: Addò sleva, nun gì à chiuoppeto! Muntagna benedetta ( 1); e quello di uva e fichi: Accostate, pover ommo! So fernute li guaie tuoie! Uva e fiche a na pubbreca o ruotolo ( 2); e il venditore di tonno: Vi ch’ha fatto u vapore! lo tunno a 18 rana (3); e quello di baccalà: Mo jeva pe mare e mo t’u magne (4); e uno di cocomeri: Mmo tarapo ‘a casciulella d o zuccaro! (5); e uno di cetrioli novelli: Cetrola pe le vecchie prene, cetrola (6); e uno di ciambelle di fior di farina:

Vi che t’ha fatto a Badessa e Santa Chiara! Che belle tuortene! (1). Intanto, la venditrice di acqua sulfurea invita: Caputa, vub vevere? (2); il cocchiere, dal suo veicolo, fa premure e quasi s impone al passeggiero: Io Voto, signò! li curricuti! Io voto! (3); lo zoccolaro offre le sue lignee ciabatte: U zuccolaro! tengo e scarpine p ’a vaiassa (4); mentre un questuante chiede, invocando: San Gaetano! Padre d ‘a Pruverenza! (5), e un altro: Surè, ricordammece ddu Priatorio. Oggi è la primmo lunedì du mese (6); e una monacella: Chirie Laeson! Christe aurenos! (7); e, talvolta, una voce lugubre: Aggiammene parte pe ste sante messe! (8). Di su un banco, dove si esibisce un Pulcinella, alla gente che si è affollata intorno uno scienziato favella in lingua aulica: Signori, il divertimento non è il Pulcinella. Sono queste (mostrando le dita). Qualunque avesse mal di dente, mola guasta, io non uso ferri, le sole dita, fatevi avanti, non avete timori, qui esiste il celebre Buccalino! — Sono centinaia e centinaia di simili voci, che sembrano compiere con l’opera del fonografo il cinematografo offerto dal De Bourcard.

Tornando al quale, dirò che, giorni addietro, riaprendo il suo libro, mi dette nell’occhio l’antica canzone del Guarracino, che vi è riferita per intero; e mi fermai a rileggerla, e, rileggendola, dicevo tra me e me che è veramente una singolare fantasia, capricciosa e graziosa, di un brio indiavolato.

Lu guarracino ( 1), che ieva pe mare,

le venne voglia de se nzorare (2);

se facette no bello vestito

de scarde de spine pulito pulito,

cu na perucca tutta ’ngrifata (3),

de ziarelle (4) imbrasciolata (5);

co lo sciabò, scolla e puzine

de pónte angrese (6) fine fine.

Il poeta continua ad abbigliare e a ornare il suo protagonista con le più diverse materie e oggetti che il mare offre; e, così abbigliato e adornato, lo mette in azione:

Tutto pòseme e steratiello (7),

ieva facenno lo sbafantiello (8),

e gerava da ccà e da llà

la nnamurata pe se trovà.