PERLE IDENTITARIE 1
FORCHE CAUDINE E COLPI DI…FORTUNA!!!
Nel nostro quotidiano, per economia di tempo, utilizziamo frasi fatte, proverbi, aneddoti, per far capire il nostro pensiero a chi ci segue in quel momento. Diventa un’abitudine consolidata, ma al massimo del nostro impegno, facciamo fatica a chiedere a noi stessi da dove derivino certe espressioni così utili. Non dovremmo farlo tutti i giorni, ma ogni tanto farebbe molto bene andare alle origini di queste perle identitarie. Sarebbe più semplice sapere chi siamo, prendere piena consapevolezza del sé. In un mondo che scorre e vive lungo le fibre dell’intelligenza artificiale, siamo come una corda costituita appunto, da fibre che stanno saldamente insieme, grazie all’ingegno e al lavoro manuale dell’uomo.
I nostri ricordi più vicini ci riconducono ai “funari”, che grazie alla ruota che girava saldavano le fibre di corda per creare funi adeguate alle varie necessità. ”La corda non va tirata troppo, altrimenti si spezza”, per dare la giusta dimensione alle cose e agli avvenimenti. E chi meglio dei funari poteva esprimere questi concetti al meglio? Questi mestieri che avevano magnifici interpreti, come i componenti della famiglia Albini, sono ormai scomparsi. Non ci sono più i Tullio o i Ninuccio che le producevano e le vendevano, oggi si direbbe, a Kilometro zero.
L’identità personale è come quella corda che si rafforza con la pazienza della manualità, annodando le fibre nel vorticoso girare della ruota della vita. Nel tempo non ci sono componenti che persistono costanti , ma sono fili che si intrecciano e singoli altri componenti di noi stessi possono arrivare a manifestarsi autonomamente, tanto che alcuni atteggiamenti, alcune decisioni sembrano essere state prese dal nostro “sé” completo. Ed ecco, che, per non lasciare che le fibre si sfilino, rendendo sempre più esile la nostra vita, dobbiamo confidare in quei fili più resistenti che saldano la corda: quelli delle nostre radici culturali.
Di qui l’idea di corroborare la nostra identità, anche con incursioni che attingono alle curiosità della storia, alle novità della memoria, quelle che ci prendono per mano e ci fanno camminare nelle giuste direzioni.
La prima delle nostre “perle” si riferisce ai nostri antenati italici: il glorioso popolo dei Sanniti.
Sentiamo spesso dire “passare sotto le forche caudine”: frase che ci riporta all’epoca della Seconda Guerra Sannitica.
Il significato è quello di subire una grave umiliazione, una prova mortificante. E’ un modo di dire che gli antichi romani adottarono dopo aver subito la sconfitta nella gola di Claudio, l’attuale sella di Arpaia nei pressi di Forchia che è l’uscita verso Caudium, ora Montesarchio.
La trappola tesa dal “Meddix Tuticus” della Lega Sannitica, Caio Ponzio Telesino(detto anche Gavio o Gaio Ponzio)ebbe successo, costringendo i consoli romani a capo dell’esercito, alla resa.
La decisione di rilasciare le legioni coi loro capi, facendogli subire l’onta dell’ignominioso passaggio sotto le Forche, sarebbe stata per Roma una sconfitta maggiore rispetto all’uccisione dei tanti guerrieri.
Il “giogo” come lo definisce lo storico romano Tito Livio, consisteva in due lance piantate nel terreno che sostenevano un’altra orizzontale,legata agli estremi superiori. La somiglianza con la “Furca”, cioè la forca attraverso la quale venivano giustiziati i condannati a morte per impiccagione, fece sì che i gioghi per i romani divenissero forche.
Il passaggio fine a se stesso, al di sotto di quelle lance simboleggiava sottomissione al nemico. Ma l’ignominia, come racconta lo stesso Livio:”…prima i consoli, quasi nudi, furono fatti passare sotto il giogo; poi gli altri in ordine e grado…infine tutte le legioni”, consisteva oltre che nella pena morale, anche in quella fisica.
Infatti i Romani dovettero sottostare alle “forche” spogliati di tutto, tranne che della tunica, subendo insulti e scherni, oltre che la sodomizzazione.
Qualche storico ha sollevato dei dubbi circa l’ultima parte della pena, ma l’espressioni usate da Tito Livio nel IX libro della sua monumentale opera “Ab urbe condita”, come “seminudi” e “indignitate” non sembra lasciare dubbi circa la somministrazione della “dura” punizione fisica.
Questo episodio sembra essere all’origine delle tante espressioni e modi di dire anche dialettali che riconducono alla “fortuna” e non solo, alle dimensioni e alle “forme” del deretano. Infatti, chi aveva un “orifizio anale” metaforicamente “più ospitale” , soffriva meno i “colpi” dei Sanniti ed era da ritenersi più fortunato degli altri. Magari per qualcuno di loro sarà stato anche piacevole… chissà?
Quindi la buona sorte era direttamente coseguenziale alla capacità di sostenere quei “colpi” di… fortuna.
La nostra discendenza sannitica, nell’episodio, che fine a se stesso, può prestarsi a qualsiasi tipo di interpretazione, da quella più colorita e volgare, a quella più seria e culturale, ci propone una riflessione unica: i nostri avi erano fieri, coraggiosi, indomiti, con una dignità integra per quei tempi e che mal accettavano ogni tipo di colonizzazione.
La storia del Mezzogiorno e delle nostre popolazioni, rivela che quelle peculiarità caratteriali le abbiamo smarrite abbastanza presto, se è vera come è vera la memoria di dominazioni e colonizzazioni che le nostre genti hanno consentito nei secoli. Quello che più fa male alla nostra dignità è l’indolenza, il farci attraversare dagli eventi e dai personaggi anche di dubbia provenienza, il lasciarsi colonnizzare culturalmente, il farsi omologare senza nessuna resistenza. Fino a confinarci ad una dimensione esistenziale di minorità.
L’episodio storico delle nostre genti sannitiche richiamato si presta anche alle più disparate interpretazioni, e ci vengono in mente tanti modi di dire, anche espressioni ritenute volgari.
Ma una lingua possiede un corredo di parole ritenute a vario titolo proibite, sconvenienti(parolacce), in un sol termine, oscene. Comunque se usate in chiave metaforica possono diventare insulti o imprecazioni, oppure sarcasmi o anche interiezioni, cioè svuotate del significato originario e per questo mai offensive.
Nel caso di specie, l’episodio, esula dalla sfera sessuale e rientra, piuttosto, in quella del destino.
Dire “Avere culo”,”Che culo”,”Botta(o colpo) di culo”, indica nel “comune senso del pudore”, avere fortuna, buona sorte.
”Prendere per il culo”, non si riferisce alla sodomia, ma può significare ingannare, o anche canzonare, prendere in giro.
Infine, “Fare il culo a qualcuno” indica fargli male.
Quasi certamente questi modi di dire più o meno “coloriti” che rientrano sia nella lingua nazionale che nel nostro idioma, hanno avuto origine da quella incredibile decisione presa dai nostri avi nei confronti dei Romani.
Meditiamo,gente sannita!Meditiamo!
NICOLA DE MICHELE
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