Intervista a Angela Gentile

Angela Gentile vi racconto la mia ricerca sui briganti….
ottobre 26, 2017

Come nasce la Sua passione per la scrittura?
Più che passione per la scrittura, la mia è una passione per la ricerca di fonti d’archivio, scoperta attraverso la mia tesi di laurea “Studio linguistico di testi di briganti sanniti”, svolta sotto la sapiente guida del prof. Nicola De Blasi. L’oggetto della mia ricerca, testi autografi di briganti, mi ha aperto le porte dell’Archivio Centrale dello Stato di Roma, dove sono custoditi gli atti dei processi riguardanti i briganti sanniti. Reperire, all’interno di enormi faldoni, minuscoli foglietti contenenti pensieri scritti proprio dai briganti, è stato davvero emozionante! Leggere queste “carte”, dialogare in modo puntiglioso con esse, mi ha permesso di entrare nella vita dei briganti senza filtri per tracciare un loro profilo culturale e per ricostruire in modo autentico, azioni, pensieri di uomini temuti, ma comunque pastori e contadini con una propria identità e una propria personalità. Dei trenta testi di briganti, oggetto di studio nella mia tesi, ne ho selezionato sedici sui quali ho concentrato successivamente l’attenzione. I sedici testi sono stati prima pubblicati sul Bollettino Linguistico Campano (rivista di dialettologia, sociolinguistica e storia della lingua italiana, diretta da Nicola De Blasi e Rosanna Sornicola) e poi, grazie al contributo della Provincia di Benevento, nel volume “Sedici lettere di briganti sanniti. La lingua e la quotidianità” (2012).
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Di cosa tratta il suo libro sui briganti?
Nel volume “Sedici lettere di briganti sanniti. La lingua e la quotidianità” sono esaminate lettere di briganti che imperversarono nell’area territoriale beneventana e del massiccio del Matese, compreso tra Benevento, Campobasso e Terra di Lavoro. I testi sono tutti epistolari e possono essere così differenziati: biglietti di ricatto con richieste di denaro e di viveri, indirizzate dal capobrigante alle famiglie dei sequestrati, per lo più proprietari terrieri; lettere inviate ai familiari con richieste di denaro e informazioni varie; lettere di ricatto, rivolte ai propri manutengoli con richieste di denaro e aiuti come armi e cavalcature; lettere rivolte alle autorità. Dei sedici testi, due sono custoditi nell’Archivio di Stato di Benevento, i restanti sono conservati nell’Archivio Centrale dello Stato di Roma. Essi sono allegati come prove a carico negli atti processuali che avevano come imputati i briganti stessi. Si tratta di testi che hanno un indubbio valore storico come testimonianze dirette per capire più a fondo le componenti del complesso fenomeno del Brigantaggio. Tuttavia, io mi sono concentrata sull’analisi degli aspetti linguistici. I briganti appartengono a pieno titolo alla categoria dei semicolti: sono personaggi di ridotta alfabetizzazione, che, solo eccezionalmente, affidano i propri pensieri alla carta e alla penna. Leggere i loro testi significa muoversi in un mare magnum di termini dialettali e regionali, affiancati da voci di provenienza scolastica e burocratica: possono essere definiti frammenti di parlato tramandatici per iscritto. Siamo nell’ambito della scrittura popolare, propria di chi ha un basso livello d’istruzione. Non è un dato di poco conto che questi briganti fossero in grado di leggere e scrivere, in un momento in cui il tasso di analfabetismo era altissimo al Sud. A volte, proprio la vita di brigante offriva a molti di essi l’occasione per la pratica della scrittura stessa. Inoltre, leggere queste scritture potrebbe risultare affascinante per qualunque lettore, perché sono un’esclusiva chiave d’accesso per entrare nella viva e cruda quotidianità dei briganti. Se le minacce dei biglietti di ricatto fanno di essi dei feroci criminali senza scrupoli, nelle lettere inviate ai familiari emerge il lato più umano dei nostri scriventi semicolti. In esse risaltano le difficoltà, gli stenti di una vita da latitanti e un legame affettivo profondo, nostalgico con la famiglia e la terra natia. In conclusione, nonostante i fiumi d’inchiostro che la storiografia ufficiale ha versato sul Brigantaggio e i nostri briganti, che cosa potrebbe aggiungere di originale il vedere, il leggere e l’interpretare i loro prodotti grafici? La risposta può essere condensata in sole tre parole: la lingua, la personalità, la quotidianità.

Quando, secondo lei, uno scritto si può definire una testimonianza storica?
Uno scritto è una testimonianza storica, quando è in grado di informare su un dato evento, cioè costituisce una fonte. Ovviamente è necessario un meticoloso lavoro di analisi e valutazione delle fonti, per ottenere una valida ricostruzione dell’evento indagato. Da ciò deriva la complessità e il fascino del sapere storico. Le lettere dei briganti sono una testimonianza storica, poiché sono fonti primarie e forniscono dati attraverso i quali lo storico ricostruisce gli eventi relativi al Brigantaggio. Inoltre, esse, sono particolarmente importanti per comprendere le diverse componenti di questo fenomeno, che ha tuttora luci ed ombre, poiché, non fanno parte delle fonti dette “intenzionali”, cioè documenti creati appo¬sitamente per essere tramandati nel tempo (leg¬gi, iscrizioni, opere celebrative, ecc…), spesso espressione di chi è al potere e, quindi, in molti casi di parte. I testi briganteschi, come i documenti privati di ogni genere, sono fonti non intenzionali cioè destinati alla vita quoti¬diana e non ad un uso pubblico ed ufficiale. Queste, essendo prive di scopi propagandistici, sono talvolta più attendibili e consentono di avere un’idea più precisa dei fatti.
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Ci parli della presentazione della sua opera, presso la Napoli Cultural Classic lo scorso 16 luglio.
L’Associazione Napoli Cultural Classic mi ha dato l’importante opportunità di parlare della mio lavoro all’interno del Party Art Cultural Classic del 16 luglio, nella magnifica cornice di Villa Ardolino. Attraverso la lettura di alcuni testi, ho accompagnato i presenti in un interessante viaggio nel panorama linguistico popolare sannita degli anni post-unitari. Caro timaso, scrive il brigante Libero Albanese, li vostro Figlio Sine Fugito…Si noi volemo esero amico mandatomi illo ricatto Si voi non mi manno illo ricatto jo vi distrugo quanto voi Beno teneto… si moro io cistano li mio comBagno…Si tacappe… ti cave na stagata…ti leve dallo monti. Si tratta di un biglietto di ricatto che il brigante Libero Albanese, fratello del celeberrimo capobanda Michelangelo, invia ad un certo Tommaso Buttini, padre del sequestrato Liberato Buttini. È certamente un documento storico a conferma del fatto che estorsioni, ricatti e rapine erano pane quotidiano per le bande di briganti. Se però il lettore, soprattutto meridionale, sposta l’attenzione sugli aspetti grafico-linguistici, innanzitutto riconosce nel testo due tra le più consuete abitudini dialettali: la pronuncia del gruppo consonantico –nd- come –nn- (manno); la pronuncia della –p- come sonora cioè –b- dopo una nasale (comBagno). Non sfuggono le forme verbali dialettali volemo ‘vogliamo’ e moro ‘muoio’ e la forma na dell’articolo indeterminativo ‘una’. Sono, invece, riferibili al basso livello di scolarizzazione piuttosto che al dialetto gli scempiamenti consonantici impropri come timaso, esero, distrugo, stano. Inoltre, è interessante notare che il brigante Albanese non conosce la morfologia minuscola della b e della f (Beno, comBagno, Figlio, Fugito), essendo la sua educazione grafica incerta ed incompleta. All’interno dei testi, non mancano locuzioni tipiche del repertorio brigantesco e frasi di tono proverbiale. Ad esempio, il brigante di Baselice Antonio Secola è stato costretto a darsi alla campagna ‘darsi alla macchia’, ossia ‘diventare brigante’, a causa dei tanti fusi ‘maldicenze e accuse’ che gli evano imposto ‘gli avevano attribuito’: il riferimento è al detto dialettale “appendere i fusi a qln.”, ossia ‘dir male di uno, trovare dei difetti’.
Al di là degli aspetti linguistici, decisamente diverso è il contenuto della lettera che il brigante Giuseppe Cutillo di Solopaca, dal confino di Sora, invia alla Carissima zi archangela. In essa, sollecita l’invio di piastre 36, 3 cammiscie le scarpe e la cammisciola, perché si ritrova con una terribbela maladia…ignute e scalize: riesce a sopravvivere grazie ad una bonda di buono cristiane e qualiche divote per certo straccia e li mosina. È particolarmente significativo il finale della lunga lettera che il brigante Pasquale Maturi indirizza alla moglie dallo Stato Pontificio, dove aveva trovato rifugio. Si tratta di un vero e proprio elenco di nomi di persone, per lo più parenti, ai quali il brigante porge i suoi saluti, quasi per rievocare la socialità perduta! Questi testi, dunque, rappresentano per i nostri briganti l’unico filo di collegamento con la loro terra, l’unico modo per continuare a far parte, anche se idealmente, della vita dei piccoli borghi sanniti. Insomma, sono abili e arditi capibanda, colpevoli di eccidi, sequestri, furti e violenze minori, ma pur sempre contadini, pastori, braccianti: uomini con una storia alle spalle che deve essere opportunamente contestualizzata e tenuta nella giusta considerazione.

Ci racconti brevemente le emozioni che ha provato mentre ha scritto il suo libro sui briganti.
Imbattersi in una ricerca di fonti d’archivio, equivale ad una bella sfida, perché si corre il rischio di un esito infruttuoso o di minima rilevanza. Raggiungere l’obiettivo è davvero arduo ma avvincente! Il prof. Nicola De Blasi a suo tempo mi affidò questa prova e io accettai immediatamente. Dopo aver raggiunto il primo e, quasi inaspettato, traguardo, le lettere, ho isolato e definito con passione e dedizione l’oggetto della mia ricerca giorno dopo giorno, anno dopo anno, come una mia creazione che piano piano prende forma. Tutto ciò mi è costata tanta fatica ma indubbiamente è stata per me una grande soddisfazione toccare con mano il volume, una volta pubblicato, poiché questo, in definitiva, rappresenta il punto d’arrivo di un lungo percorso di studi durato più di dieci anni.

Quali saranno i suoi prossimi impegni?
Rimanendo nell’ambito della scrittura popolare, ho in progetto di studiare le lettere che gli emigranti del mio paese, San Marco dei Cavoti in provincia di Benevento, inviavano ai loro parenti dalla lontana America, nella prima metà del ‘900.

Attualmente il mondo della scrittura è in crisi. Secondo Lei, quali sono le reali cause? E quali ritiene le possibili soluzioni di questa crisi?
Si può vivere facendo lo scrittore? Se ponessimo questa domanda ad uno studente di quinto superiore che deve scegliere la strada da percorrere per il proprio futuro o ad un laureando, entrambi risponderebbero di no. È la risposta più ovvia, frutto di una società pragmatica il cui obiettivo principale è trovare un lavoro che dia risultati immediati in termini di guadagno. In quest’ottica “il mestiere di scrittore” non dà molte speranze. Ecco perché, quanti hanno la passione per la scrittura si dedicano ad essa nel tempo libero come un hobby e l’eventuale pubblicazione di una propria opera è innanzitutto una gratificazione, più che una fonte di guadagno. Se poi arriva il successo, ben venga! Credo che tale situazione non possa cambiare fino a quando il modus vivendi della società attuale sarà basato sulla ricchezza materiale.

Lei è un insegnante di Lettere, che cosa ritiene che si possa fare nella scuola di oggi per trasmettere ai giovanissimi l’amore per la scrittura?
È ormai risaputo che i ragazzi oggi scrivono e leggono poco. Certamente, tra gli innumerevoli fattori che hanno determinato tale situazione, la scuola ha una bella fetta di responsabilità. A scuola si perfeziona, per così dire, più una scrittura di tipo saggistico, essenziale per lo studio degli autori e per le analisi delle opere, piuttosto che una scrittura di tipo narrativo. Tuttavia, la scrittura non è solo una modalità espressiva per poter analizzare un testo, sviluppare un tema, ma è anche uno strumento per raccontare una storia, far vivere dei personaggi, trasmettere delle emozioni. È, quindi, importante dare più spazio alla scrittura creativa, per permettere all’adolescente di scoprire una propria capacità inventiva e trovare il modo per poterla esprimere. Ovviamente è indispensabile coltivare lettura di testi classici e contemporanei, che sono in grado di offrire diversi spunti di riflessione sia in termini di contenuti, sia in termini di tecniche di scrittura. La lettura di un’opera, però, non deve essere ancorata semplicemente all’analisi testuale. Bisogna che i ragazzi si lascino conquistare ed appassionare dai contenuti: devono potersi immedesimare nei personaggi, vivere con loro. Certo tutto ciò non è facile: l’innovazione non sostituisce la tradizione, ma si integra con essa. Perciò, il docente deve sempre studiare ed essere pronto a mettersi in gioco per trovare metodi e approcci adeguati ed efficaci.
http://www.culturalclassic.it/it/dettaglio_news.aspx?iddettaglio=5327&myband=47