PREFAZIONE
La celebrazione del centocinquantesimo anniversario della proclamazione di Vittorio Emanuele II di Savoia a re d’Italia è avvenuta in un’atmosfera diversa da quella del cinquantenario nel 1911 e del centenario nel 1961.
Nel 1911 dominò la convinzione orgogliosa e commossa della grande opera compiuta dalla nazione italiana col Risorgimento e con l’unificazione. Grande opera compiuta certamente, nella sua fase conclusiva, con l’aiuto straniero, senza del quale non si poteva dire quale ne sarebbe stato l’esito. Era, però, la prima volta, dopo oltre tre secoli, in cui si vedevano gli italiani promotori e protagonisti del loro destino politico; la prima volta in cui non erano le potenze europee fuori e al disopra dell’Italia a decidere dell’assetto politico della penisola secondo i loro criteri e i loro interessi; la prima volta in cui criteri e interessi italiani prevalevano su quelli delle potenze transalpine e giocavano un ruolo determinante nel loro affermarsi; la prima volta in cui davvero l’Italia era considerata unitariamente non perché il sistema degli Stati italiani e la parte che in esso avevano le potenze europee facevano parte dell’equilibrio europeo e contribuivano a determinarlo, ma perché, considerata ormai un solo paese, nella sua totalità veniva a costituire un nuovo Stato, che avrebbe partecipato autonomamente alla determinazione dell’equilibrio europeo. L’Italia celebrava il cinquantenario della sua unificazione prima che altrettanto potesse fare la grande Germania imperiale del Secondo Reich; e lo celebrava quando da almeno un quindicennio si era inserita nella pattuglia dei paesi second comers della “rivoluzione industriale”, prima di tanti altri paesi europei e non europei di ben maggiori risorse, e contava, dunque, ormai fra i “grandi” nelle graduatorie moderne della potenza.
Orgoglio e commozione non erano, perciò, senza ragione. L’enorme monumento che a Vittorio Emanuele II volle erigere in Roma il regnante nipote Vittorio Emanuele III – pur nella sua subito discussa e mai del tutto perdonata magniloquenza architettonica e nello sfarzoso cromatismo del suo candore – diede, tuttavia, il segno dello spirito che permeava quell’orgoglio e quella commozione: uno spirito che attestava l’autentica dimensione etico-politica di quelle celebrazioni. Sulle due torri di quel monumento si trovavano, infatti, due iscrizioni che sono un riassunto fulmineo, ma completo dei principii che animarono il Risorgimento e l’unificazione italiana: l’unità della patria e la libertà dei cittadini. Di questi principii, nonostante ogni apparenza in contrario, si era nutrita pure la coscienza civile degli italiani in quel primo cinquantennio di unità; e anche da essi derivava qualcosa dell’orgoglio e della commozione con cui lo ce- lebravano, poiché si trattava dei principii in auge nei grandi paesi occidentali, e condividerli era un’ulteriore maniera di sentirsi nel gruppo dei primi paesi, dei paesi più civili (come allora si diceva) del mondo.
Nel 1961 la carriera dell’Italia come grande potenza europea si era disastrosamente conclusa nelle rovine e nei lutti della seconda guerra mondiale. Poi, però, il paese era ripartito, vivendo quasi con sorpresa, ma con vero slancio gli anni indimenticabili di una nuova, vera e propria primavera della sua storia plurimillenaria. Dominante fu il definitivo decollo dell’economia che fece dell’Italia non solo un paese avanzato, ma una delle maggiori potenze industriali del mondo. La vita materiale degli italiani ne usciva profondamente trasformata. Mentalità, comportamenti, usi e costumi, redditi e consumi, loisirs e comforts, scuola e cultura, strutture urbane e paesistiche: tutto appariva in fervorosa trasformazione. Andava sparendo l’impulso emigratorio che anche dopo la guerra aveva portato un elevatis- simo numero di italiani in Europa, in America latina, in Australia e altrove. Il lavoro si trovava ora sempre più in patria; e un grandioso fenomeno di migrazioni interne fondeva anche sul piano demografico e fisico gli italiani più di quanto fosse avvenuto in tutto il secolo precedente. Iniziava la motorizzazione di massa, il sistema delle comuni- cazioni interne era di non poco potenziato (nuovi treni, trasporto aereo, autostrade), l’avvento della televisione segnava l’avvio di un’epoca del tutto nuova e si rivelava ben presto un formidabile strumento di integrazione culturale e civile del paese.
Di questa felice congiuntura risentirono l’impostazione e lo spirito delle celebrazioni del 1961. Il paese si celebrava con una convinzione non minore dell’orgoglio manifestato nel 1911.Tendeva a mettere in evidenza soprattutto il grande fatto della modernizzazione di cui era protagonista, e a sottolinearne, in particolare, gli aspetti attinenti ai suoi progressi nel campo tecnologico: le attrezzature, lo strumentario, i servizi in cui quel grande, recente progresso andava ogni giorno di più traducendosi. Non che si fosse dimenticato il gravoso fardello di problemi antichi e nuovi di cui il paese, malgrado ogni progresso compiuto o in corso, continuava a essere afflitto, e anche in parte tarpato nelle sue possibilità di ulteriore sviluppo: primo fra tutti, indiscussamente, la cosiddetta “questione meridionale”, che appariva come il vulnus più grave, quasi come un irredento peccato originale dell’unificazione nazionale e dello Stato che ne era nato. Il tono generale e dominante era, però, quello che si è detto. Le celebrazioni ebbero, indubbiamente, una forte intonazione di ufficialità e di solennità pubblica, ma senza troppo danno di ciò che volevano dire e far sentire.
Scena ancora, e del tutto, mutata nel 2011. Da un ventennio, andato in frantumi il sistema politico formatosi fra gli anni ’40 e ’50 del ‘900, il paese cercava, senza riuscire a trovarlo, un nuovo quadro politico e una classe dirigente all’altezza del compito di riavviare la vita politica e sociale del paese sui binari di una riformata e vitale funzionalità liberal-democratica. Quel ventennio sembrava, invece, aver addirittura messo in luce una crisi progressiva e incalzante dell’identità e della coscienza nazionale.
A indicarlo non erano solo lo sviluppo e l’importanza assunta da movimenti politici, come la Lega Nord, che avevano preso a loro obiettivo la secessione di una parte fondamentale del paese, la cosiddetta Padania, dallo Stato italiano, che pure aveva resistito all’urto severo di due grandi guerre mondiali. Era soprattutto la diffusione di una cultura revisionistica, in senso profondamente critico e negativo, di tutta la storia di quella identità e di quella coscienza. Era soprattutto la diffusione di questa spinta revisionistica ai livelli della cultura corrente, per cui era diventato comune una sorta di nostalgico rimpianto dell’assetto politico italiano pre-unitario.
Tranne quello pontificio, tutti gli altri antichi Stati italiani venivano considerati felici sistemazioni politiche dei popoli italiani, accomunati, dal punto di vista nazionale, quasi soltanto dall’arte e dalla cultura. L’unificazione era stata una forzatura, anche violenta, voluta da una minoranza di intellettuali ideologizzanti, egemonizzati dalla monarchia sabauda, e imposta a un paese in cui la stessa lingua nazionale era parlata da una piccola minoranza della popolazione. Dell’unità solo un piccolo gruppo di regioni italiane si erano realmente avvantaggiate. L’incancrenirsi della “questione meridionale” ne era una palmare dimostrazione. Uno Stato lontano dal sentire delle popolazioni della penisola, accentrato, oppressivo, fiscale aveva spento le autonome e migliori prospettive proprie di ciascuna parte della penisola prima dell’unificazione.
Naturalmente, se una tale opinione sulla genesi e sulle vicende dello Stato nazionale si era così diffusa, e in un lasso di tempo brevissimo (qualche decennio), ve ne doveva pur essere una qualche ragione di fondo. Il progressivo esaurimento della vitalità e del prestigio del sistema politico italiano che durava dal 1945 può essere certamente considerato al riguardo. Senza, però, voler entrare in tale, pur così importante, questione, ci limitiamo qui a osservare che, nate nell’accennata atmosfera di critica e di negazione, le celebrazioni del 2011 hanno avuto un successo nettamente superiore alle previsioni della vigilia e ai congiunti timori di ritrovarsi in una serie di manifestazioni e di cerimonie vanificate, nel loro intento nazionale, dal marchio di una ufficialità non partecipata.
A buona ragione si è visto in ciò una riprova delle convinzioni di coloro che avevano sempre ritenuto che l’unità italiana non fosse stata l’arbitrario esito di un processo storico imposto da una minoranza prevaricatrice e da una parte dell’Italia a tutto il resto e ai varii popoli del paese, ma un’esigenza profonda della storia italiana: un’esigenza in piena coincidenza col movimento generale della coeva storia europea, molto più partecipata e più vissuta di quanto si diceva, un’esigenza da giudicare alla luce non solo dell’idea di nazione, bensì anche sul piano delle idee liberali e democratiche con le quali la causa nazionale si era identificata, e sul piano, altresì, del grande successo storico realizzato con l’ingresso dell’Italia nel circolo dei paesi più sviluppati e fra le maggiori potenze europee, dopo tre secoli di totale dipendenza da potenze straniere e di progressiva emarginazione fra i paesi guide e protagonisti della cultura e dell’economia moderna. Sarebbe ingenuo e banale considerare superate, con ciò, le ragioni della crisi dell’identità e della coscienza nazionale, che aveva portato anche storici di collaudato mestiere a parlare del pensiero nazionale italiano di ieri e di oggi come mera “ideologia italiana”. Certo è, però, che una loro traccia forte e sicura le celebrazioni del 2011 l’hanno lasciata nel vissuto della realtà italiana e nella cultura nazionale; e di essa solo gli sviluppi futuri della società italiana e l’ulteriore lavoro della cultura nazionale potranno chiarire appieno il senso e la portata.
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Fu in questo quadro che prese corpo l’idea di dedicare una particolare attenzione a quello degli Stati italiani pre-unitari, il cui ingresso nel nascente Regno d’Italia sollevò più discussioni a quel tempo, e ancora di più ne ha sollevato in seguito.
Nell’ondata revisionistica di cui si è detto, il Regno delle Due Sicilie ha poi finito con l’occupare lo spazio di gran lunga maggiore, costituendo il maggiore capo di imputazione a carico della classe politica che realizzò l’unità italiana e dei protagonisti che in tale realizzazione ebbero la parte maggiore, nonché a carico del Piemonte, dei “piemontesi”, del vecchio Regno di Sardegna, considerati quali principali beneficiari della stessa unificazione.
Non fu, però, affatto un intento polemico, in qualsiasi senso, con la tanto diffusa corrente revisionistica sviluppatasi intorno al Mezzogiorno pre-unitario a far nascere l’idea di soffermarsi – per le celebrazioni del 2011 – sul Regno delle Due Sicilie. Tanto meno un qualsiasi intento polemico vi fu riguardo alla, pur essa diffusissima, esaltazione della Casa di Borbone regnante nel Mezzogiorno nei tempi del Risorgimento e dell’unificazione. Né la completa assenza di ogni intento polemico era dovuta soltanto al fatto che i tempi della retorica, delle apologie e dei panegirici, delle agiografie e degli atti di accusa, delle condanne e delle assoluzioni dovrebbero essere ormai considerati remoti per avvenimenti che distano da noi un secolo e mezzo: piccolissimo spazio di tempo da tanti punti di vista, ma lunghissimo spazio temporale nelle cose dell’uomo. Al momento delle celebrazioni del 1911 vivevano ancora molti di coloro che avevano conosciuto l’Italia pre-1861; al momento di quelle del 1961 nessuno di costoro sopravviveva e la maggior parte della popolazione era nata dopo il 1911. Figurarsi nel 2011! Le polemiche non potevano, quindi, avere che altro fondamento da quello di una tenace prosecuzione di antiche contese. Esprimevano, infatti, idee e bisogni, esigenze e posizioni, che avevano la loro radice nell’oggi, non nella realtà di quell’ormai lontano passato. E da questo punto di vista possono trovare una qualche giustificazione che sul piano storiografico non possono davvero pretendere.Anche se, si aggiunga, e sia detto per inciso, diffusissima è la presentazione dei tanti scritti nati in questa temperie come frutto di un lavoro esclusivamente storiografico, e ancor più diffusa è la loro polemica contro la cosiddetta “storiografia ufficiale”, che avrebbe, fra le altre sue colpe, anche quella di avere cancellato dalla memoria storica addirittura intere pagine della storia nazionale.
Nel caso del convegno Mezzogiorno,Risorgimento e unità d’Italia in occasione delle celebrazioni del 2011, l’idea nacque comunque – più semplicemente, ma anche, crediamo, più pertinentemente – dalla constatazione di un dato di fatto in- negabile. Si aveva, infatti, la possibilità, da considerare ormai più che matura proprio sul terreno storiografico, di tentare una generale messa a fuoco dell’ampia messe di studi e di ricerche di varia importanza, ma certo molto innovativi nel loro complesso, che dalla metà del ‘900 in poi si è avuta sulla storia del Risorgimento e sulla storia del Mezzogiorno nello stesso periodo.
Fu questa possibilità a persuadere subito istituzioni culturali del rilievo dell’Accademia Nazionale dei Lincei e dell’Istituto della Enciclopedia Italiana a farsi promotori di quel convegno e ad assicurarne lo svolgimento nel maggio del 2011. E vale, anzi, la pena di notare che, nello spirito in cui Accademia e Istituto promossero l’iniziativa, il bisogno e l’opportunità di una nuova riflessione sul ruolo che il Mezzogiorno ebbe nel processo risorgimentale scaturivano non solo e non tanto dalla ricorrenza del 150° anniversario dell’unificazione italiana, alla quale pure sia l’Accademia che l’Istituto portavano tutta la dovuta attenzione, quanto dalla serie degli interrogativi che, in rapporto o senza relazione con tale anniversario, si sono tornati a proporre negli studi e, soprattutto, nel dibattito culturale e nella vita civile italiana degli ultimi decennii.
Interrogativi fin troppo noti, e li abbiamo qui già adombrati: conquista piemontese? Repentino crollo del 1860? Oppure un travagliato iter di approdo all’idea nazionale italiana da parte delle sezioni più dinamiche e moderne delle classi dirigenti meridionali? “Paradiso borbonico” soppiantato dall’”inferno” dell’Italia unita? Qual era la realtà civile, culturale, politica, morale di quel “paradiso”? Quali gli echi e le interferenze europee della realtà e delle vicende napo- letane fino al 1860?
Questi gli interrogativi, ai quali, pur aureolati di tanta “attualità” e “interesse polemico”, si faceva luogo e si intendeva dare risposte al di fuori, come si è detto, di ogni seduzione o tentazione polemica o di semplice logica e prassi delle ricorrenze. Semmai, oltre a essere rivolti a un sereno bilancio degli studi nel loro stato attuale e nelle loro prospettive, essi erano piuttosto pensati anche in funzione di ciò che da un tale bilancio potesse essere indicato e suggerito per una rinnovata visione sia del Mezzogiorno che del Risorgimento, e – anche, e non marginalmente – in funzione di un intento di giovare, con un discorso rinnovato sul Mezzogiorno fino al 1860, anche a una più persuasiva e approfondita riflessione sul Mezzogiorno dopo il 1860.
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Il programma dei lavori del convegno, riprodotto qui in calce, dà l’idea di ciò che in effetti si fece nei giorni di quei lavori, onorati, nella seduta inaugurale, dalla presenza del Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, che confermava anche così il suo assiduo e profondo interesse a tutte le questioni concernenti l’unità nazionale, e aperti dal Presidente dell’Istituto della Enciclopedia Italiana, Giuliano Amato, e conclusi, per l’Accademia dei Lincei, dal Presidente Lamberto Maffei.
Di tali lavori il presente volume riporta gli atti, che, conforme allo spirito dell’iniziativa, sono offerti agli studiosi, e non solo a quelli specialisti delle discipline storiche qui presenti, come strumento di lavoro per le loro ricerche e riflessioni. Sono, però, anche offerti a tutti gli eventuali e possibili lettori come una sollecitazione a ripensare più in dettaglio e con più aggiornate vedute le complesse e tanto importanti materie di cui qui si tratta.
Malgrado il non poco tempo trascorso dai gironi del convegno alla data di pubblicazione, ritardata da ragioni di carattere tecnico-organizzativo nel frattempo intervenute, alcuni degli studiosi partecipanti al convegno non hanno fatto pervenire le loro relazioni per la stampa (Aurelio Cernigliaro, Lucy Riall e Gilles Pécout). Non possiamo che dolercene, e per ragioni tanto ovvie da non meritare di essere sottolineate. Ci auguriamo soltanto che delle relazioni tenute in quei giorni quegli studiosi traggano ugualmente impulso a dare altrove gli elementi più interessanti delle loro annotazioni e riflessioni.
Giuseppe Galasso