Cibo e taverne della Napoli antica

Cibo e taverne della Napoli antica
by historiaregni 

Ci concediamo un rapido excursus storico e culinario tra il cibo e le taverne di Napoli tra Cinquecento ed Ottocento.

Secondo l’elenco redatto dal Marchese di Crispano, nel 1669 a Napoli si contavano duecento taverne. Vi si incontravano spagnoli e napoletani, musicisti, soldati, poeti, meretrici. A Rua Catalana c’erano le taverne di Santa Margaritella, del Fondaco, del Cetrangolo, nel quartieri Porto quella dei Calderai, della Dogana, della Baracca, nel quartiere di Sant’Antonio c’erano le taverne degli Zingari, degli Incarnati, del Crispano… immortalate dai sonetti di G. B. del Tufo e riscoperte da Salvatore Di Giacomo. Quella cui la storia ha consegnato maggior fama è sicuramente la taverna del Cerriglio che si trovava nella prima strada a sinistra scendendo i “gradini di San Giuseppe”. Qui Caravaggio fu aggredito e sfregiato al volto. Bontà del cibo, esiguità del prezzo, atmosfere calde e colorate, nella Napoli spagnola la taverna assume un ruolo centrale come ambiente di incontro tra strati sociali diversi. E’ qui poi che si potevano assaggiare le migliori pietanze locali destinate a giungere sino ai nostri giorni come zuppa di soffritto e minestra maritata, piatti centrati su succulente carni suine, forse proprio di origine spagnola.
Lo sviluppo della cucina napoletana dal Cinquecento ai giorni nostri è segnato dal fascino di ciò che è fresco. Sono quindi diffuse ancora oggi in città storiche pizzerie e friggitorie, fast-food ante litteram, dove il prodotto si consuma subito, appena cotto e ben caldo. Il celebre Ippolito Cavalcanti, duca di Buonvicino, nella sua Cucina teorico-pratica, opera pubblicata a Napoli nel 1837, presenta numerose ricette dell’epoca tipicamente napoletane. Come ad esempio la pizza fritta. “Badando – scriveva in merito il Duca – che tutte le paste nella padella debbono andare galleggianti, e non strette tra loro, perchè coll’azion calorica la pasta, purchè sia stata ben faticata, si gonfierà, e trovandosi strette si rammolliscono subito, ed a dirlo precisamente succederà una papocchia”.
Anche Goethe, nel secolo precedente, scriveva: “Agli angoli di tutte le strade, con le loro padelle colme di olio bollente, stanno i friggitori intenti, specie nei giorni festivi, a cuocere lì lì, secondo il desiderio di ognuno, pesci e frittelle: ne fanno uno smercio incredibile, e migliaia di avventori ne portan via, su d’un piccolo foglio di carta, il pasto e la cena”.
Non solo pizze ma anche pesce, sia fritto, marinato, in zuppa o arrostito. Così, nel Settecento, il secolo in cui arrivano le nuove influenze culinarie dalla Francia e prendono nomi francesi molti piatti napoletani tipici (il ragù, il gattò, i crocchè…), l’anonimo di ‘O Guarracino continuava ad esaltare l’inconfondibile fragranza dei prodotti del Golfo: “Pisce palumme e piscatrice, scuorfene, cernie e alice, mucchie, ricciole, musdee e mazzune, stelle, aluzze e storiune, merluzze, ruongole e murene, capodoglie, orche e vallene, capitune, auglie e arenghe, ciefere, cuocce, tracene e tenghe, treglie, tremmole, trotte e tunne, fiche, cepolle, laune e retunne, purpe, secce e calamare, pisce spate e stelle de mare, pisce palumme e pisce martielle, voccadoro e cecenielle, capochiuove e guarracine, cannolicchie, ostreche e ancine, vongole, cocciole e patelle, piscecane e grancetielle…”.
Ancora nel 1863, Achille Spatuzzi nel suo Sull’alimentazione del popolo minuto in Napoli riportava: “Il nostro popolo è massimamente ghiotto delle fritture di pesci, basta volgere lo sguardo a quelle bettole, dove egli va ordinariamente a fare il suo pasto, per vederne preparati dei grossi piatti. Ma quella miscela di minuti pesci fatta per lo più dai piccoli delle triglie e dei serrani, detta volgarmente ‘fravaglia’, costituisce la più gradita, che si mangia spesso anche dalle persone agiate; mentre il popolo minuto mangia più ordinariamente un’altra miscela di pesciolini di poco conto, che appella col nome vernacolo di ‘mazzamme’. Meritano poi special menzione le anguille, e tra esse specialmente le più grosse, che in Napoli diconsi ‘capitoni’, e che formano il cibo di rito della vigilia di Natale, come pure il tonno. E ricordiamo infine quei pesciolini che volgarmente diconsi ‘cicinielli’ i quali ordinariamente si usano per condire le torte (pizze). Fanno poi in ogni tempo un grande sciupo dello ‘stoccofizzo’ e dei ‘baccalari’. Tra molluschi cefalopodi quelli che più comunemente si mangiano dal nostro volgo sono i polpi, che si sogliono far bollire per farne delle zuppe o per prepararli, come volgarmente dicesi, ‘in bianco’ con olio e limone. Il volgo mangia pure talvolta delle seppie, mentre il calamaro adorna le mense degli agiati. Infine tra i molluschi acefali il basso volgo suol mangiar talvolta le telline, volgarmente dette ‘tonninole’, e le così dette ‘cocciole’; poichè queste specie si vendono a più mercato prezzo tra quelle che van comprese presso noi sotto il nome volgare di frutti di mare, come sarebbero le ostriche, le arsele volgarmente dette ‘vongole’, i ‘cannolicchi’, e simili, che si vendono a prezzo carissimo, e quasi mai tocca al volgo il poterne comprare”.
Una grande rivoluzione era poi avvenuta a Napoli nel XVII secolo quando si iniziò ad usare il pomodoro, proveniente dal Nuovo Mondo, nella cucina come salsa. Il primo riferimento al sugo di pomodoro si riscontra in un libro di cucina del 1692 di Antonio Latini, ministro del Vicerè, che la chiamava “salsa di pomodoro alla Spagnuola”. Il libro conteneva tre ricette di pomodoro, una come condimento di salsa, una che combinava pomodoro, zucca, melanzane e cipolla ed una per lo stufato di pomodoro e carne. Più tardi, in un altro libro, “Il cuoco galante” di Vincenzo Corrado del 1773, si elencavano sino a dodici ricette contenenti la salsa di pomodoro.
Nonostante oggi le taverne cinquecentesche non esistano più e la società sia profondamente cambiata, la tradizionale cucina napoletana conserva una sua viva attualità che sorprende perché sfida i gusti moderni continuando a tenere aperta la porta su secoli lontani.

Autore articolo: Angelo D’Ambra
La foto di copertina ritrae il dipinto di Diego Velázquez “Comida de pìcaros” ed è tratta dalla rete