Unità d’Italia – Non se ne deve parlare

Diretta a presidente della Regione Puglia Michele Emiliano
Per un uso corretto della memoria e della storia

Lea Durante Bari, Italia
Lo scorso 4 luglio il Consiglio Regionale della Puglia ha approvato quasi all’unanimità una mozione proposta dal Movimento 5 stelle, che chiede l’istituzione di una giornata della memoria per i morti meridionali nel corso  del processo per l’Unità d’Italia, sull’esempio di analoghe iniziative già assunte in Campania, Abruzzo e  Molise. Si tratta di un uso pubblico della storia fortemente strumentale e demagogico, di un percorso che il Consiglio ha intrapreso in spregio alla ricerca storica e in totale autonomia. Gli storici del Dipartimento DISUM dell’Università di Bari hanno risposto con una lettera pubblicata dal “Corriere del Mezzogiorno”, prendendo posizione contro tale provvedimento.
Vogliamo sostenere la lettera che segue con altre firme,  per chiedere a Michele Emiliano di non dare corso all’iniziativa con decisioni più forti; di non finanziare alcun momento pubblico di celebrazione; di non coinvolgere le scuole in alcun modo.
Ecco la lettera:
Ha perfettamente ragione Alessandro Laterza quando nel suo intervento su Sud e Cultura, parzialmente riportato dal Corriere del Mezzogiorno dello scorso 20 luglio, sostiene con forza che la questione meridionale oggi si affronta «lavorando sulle istituzioni formative, sulla qualificazione del sistema scolastico e sulla riforma organizzativa e … morale dell’ Università».
Proprio per questo, a leggere la mozione del consiglio regionale dello scorso 4 luglio ci siamo chiesti che cosa diremo nella «giornata della memoria» del prossimo 13 febbraio agli studenti eventualmente coinvolti nelle iniziative sul «ricordo», forse promosse anche con la partecipazione della Regione Puglia, illustrando la caduta di Gaeta e la fine del povero Francesco II di Borbone, sopraffatto da Vittorio Emanuele II e da quel mascalzone di Garibaldi. Perché il 13 febbraio 1861 è la data della presa di Gaeta e della fine dei Borboni.
Diremo agli studenti che il Mezzogiorno è arretrato per colpa dell’unificazione italiana e che la storia delle insorgenze e del brigantaggio, storia certo tremenda e sanguinosa, non è una storia lunga, che si riannoda alle sanguinose insorgenze sanfediste del Cardinale Ruffo, vittoriose coi Borboni e gli Inglesi su quei manigoldi di giacobini, alla fine impiccati sui pennoni delle navi di Nelson?
Le propaggini estreme di un meridionalismo “piagnone” e rivendicazionista, del tutto opposto al meridionalismo degli Sturzo, Salvemini e Gramsci, si coagulano in una operazione che riporta al centro il primato neoborbonico. Francamente un epilogo del meridionalismo storico forse prevedibile, ma del quale c’è poco da rallegrarsi.

Luigi Masella Ennio Corvaglia Gianluca Fruci Ferdinando Pappalardo Carlo Spagnolo

Questa petizione sarà consegnata a:
presidente della Regione Puglia Michele Emiliano


Gentile Prof.ssa Lea Durante e gentili Professori Luigi Masella Ennio Corvaglia Gianluca Fruci Ferdinando Pappalardo Carlo Spagnolo, ho letto con attenzione l’articolo e me ne dissocio totalmente. Io sono un pugliese deportato a Milano dal 1954 e faccio parte di una comunità che nella sola Lombardia conta oltre un milione e mezzo di emigrati (solo i pugliesi). Oggi la Lombardia su dieci milioni di abitanti può contare oltre cinque milioni di meridionali. Escludo gli emigrati all’estero per semplificare. Io conosco sia Michele Emiliano, sia Pino Aprile ed anche Gennaro De Crescenzo, persone intelligenti e molto moderate in ogni circostanza che credo non prenderanno nemmeno in considerazione quanto è invitato nel vostro articolo sopra riportato. Il mio paese natale, Casalnuovo Monterotaro (FG), oggi conta meno di mille abitanti mentre nel 1955 si era quasi ottomila. Un paese morto e sepolto e trasferitosi per lo più in Piemonte e Lombardia ove conta oggi oltre ventimila emigrati. Un giorno di ca. dieci anni fa, ricevendo una onorificenza per la mia “emigrazione”, parlando al pubblico ricordai che Casalnuovo Monterotaro ebbe almeno 22 giovani fucilati dai bersaglieri e dalla guardia nazionale tra il 1861 ed il 1863, e ne lessi i nomi rammentando che senza il loro ricordo il paese sarebbe morto definitivamente. Il ricordo è quanto di più importante sta nell’uomo. E’ la sua stessa vita. Quei ventidue ragazzi ebbero madri e padri ma nessun figlio. Il silenzio tra il pubblico era assordante ed alla fine un generale dell’Arma dei Carabinieri, mi si avvicinò e mi ringraziò per ciò che avevo avuto il coraggio di dire e di fare, rispettando le verità nascoste ai più. Al sindaco, non piacque il mio intervento e soggiunse un elogio ai “piemontesi” per averci liberato “da cosa?”. Ora io le domando, con quale diritto morale e storico voi ci accusate di “neoborbonismo”, quando la vostra classe dirigente,e tra essa non dimentichiamo il pugliese Giuseppe Di Vittorio, acconsentì all’emigrazione nelle regioni del Nord Italia? Oggi i nostri paesi sono morti. Bari allargata con S. Spirito, Palese etc. etc. conta gli stessi abitanti che aveva nel 1860! Dove sono oggi i pugliesi? Le colpe noi emigrati le conosciamo bene e sappiamo a chi attribuirle. Non raccoglierete alcuna firma.

Cordiali saluti, Domenico Iannantuoni


Giorno della memoria neoborbonica
Partiti ormai senza più saperi
di Saverio Russo

Intervengo nel dibattito aperto dalla delibera del Consiglio regionale pugliese che ha istituito la giornata della memoria, per ricordare i meridionali morti durante l’Unificazione, condividendo totalmente la presa di posizione dei colleghi contemporaneisti dell’Università di Bari. Pur intuendo – e non condividendo – le ragioni che hanno portato la maggioranza del Consiglio ad aderire, con poche eccezioni, alla mozione del Movimento 5 stelle, mi interrogo, in primo luogo, sul problema del rapporto tra assemblee elettive e saperi esperti, nel tempo della scomparsa dei grandi partiti di massa (DC, PCI, PSI), in cui “militavano” medici, storici, urbanisti etc. che spesso contribuivano disinteressatamente alla definizione dei programmi e delle scelte operative, anche se non erano componenti di consigli e giunte. Veniamo alla questione di cui si discute.

Ho fatto parte per qualche decennio di una comunità di ricerca – quella degli storici dell’Università di Bari – che precocemente, già nella generazione precedente, aveva preso le distanze dal paradigma “risorgimentale” e “sabaudista” della storia del Mezzogiorno, che vedeva ovunque arretratezza nel Regno delle Due Sicilie e leggeva il processo di Unificazione come un’epopea di eroi senza macchia contro barbari sanguinari. Di questa comunità di studiosi fanno ancora parte – per restare ai modernisti e per limitarci ad alcuni nomi – studiosi come Angelantonio Spagnoletti, autore di un’apprezzatissima Storia del Regno delle Due Sicilie, edita da Il Mulino a Bologna; Angelo Massafra, autore di numerose ricerche sulle infrastrutture viarie in età borbonica e organizzatore, più di 30 anni fa, di un importantissimo convegno dedicato a “forme e limiti della modernizzazione” del Mezzogiorno preunitario; Biagio Salvemini, autore di diverse ricerche su mercanti e imprenditori pugliesi nell’Ottocento e curatore, con Masella e Massafra, di diverse Storie della Puglia; io stesso, che mi occupo di trasformazioni dell’agricoltura e di politiche del territorio nel primo Ottocento. Abbiamo cercato di leggere la storia del Mezzogiorno e della Puglia borbonica non come una vicenda di indifferenziata arretratezza ed oppressione, cercando sempre di leggere quello che cambia e di dar un volto ai protagonisti di quelle vicende. Certo non siamo arrivati alla tesi dei tanti primati meridionali di alcune recenti “vulgate”, alla rappresentazione ideologica di uno Mezzogiorno moderno e sviluppato al momento dell’Unificazione, ma abbiamo dato testimonianza della capacità della buona storiografia di rileggere criticamente i lasciti culturali delle generazioni precedenti.

Di fronte alla programmata delibera del Consiglio regionale, da studioso abituato alla pratiche di un tempo, mi sarei aspettato – non per me, ma per qualcuno dei miei illustri colleghi baresi o leccesi – una richiesta di parere, dal momento che anche chi fa ricerca storica, insegna nelle Università, forma i docenti, ha il diritto di partecipare alla elaborazione di decisioni che puntano a costruire la memoria collettiva di una comunità.

Considerata l’irrilevanza per la maggioranza del Consiglio regionale di un parere esperto, la data scelta per la giornata della memoria, il 13 febbraio, data della presa di Gaeta nel 1861, mi pone alcuni quesiti: sarà istituita un’analoga giornata per ricordare il giovane minervinese Emanuele De Deo, impiccato nel 1794, le vittime del sanfedismo e della repressione borbonica del 1799, quelle della reazione dopo il 1848? Nel ricordo delle vittime dell’Unificazione, ci sarà spazio anche per la memoria, ad esempio, dei 22 liberali di san Giovanni Rotondo, letteralmente fatti a pezzi nel 1860?. Non si rende conto la maggioranza del Consiglio di aver dato la stura a pericolose derive culturali e di aver espropriato la ricerca storica del compito – faticoso e spesso conflittuale, ma assolto con rigore ed onesta – di partecipare alla costruzione della memoria collettiva?

(ordinario di Storia moderna presso l’Università di Foggia)
25 luglio 2017 |
© RIPRODUZIONE RISERVATA


PARLARE

UNITA’ D’ITALIA: PARLARE NON E’ SPARARE

Non se ne deve parlare. Lo chiede una petizione firmata da una docente dell’università di Bari dopo la mozione del M5S per l’istituzione in Puglia, il 13 febbraio, della Giornata della Memoria per le vittime meridionali del processo di Unità d’Italia. La petizione on line si attende tre decisioni dal governatore Emiliano. Uno, bloccare l’iniziativa. Due, non finanziare alcuna pubblica celebrazione. Tre, non coinvolgere le scuole in alcun modo. Essendo una petizione, non è un ordine. Petizione di privati cittadini dopo che la mozione in consiglio regionale (a nome di tutti i cittadini) è stata approvata da tutti tranne quattro. E condivisa dallo stesso Emiliano.
Ma la petizione giunge dopo che cinque autorevoli storici (sempre dell’università di Bari) avevano definito <operazione neoborbonica> la mozione. Preoccupati che si possa dire agli studenti che il Mezzogiorno è arretrato per colpa dell’unificazione. E che il brigantaggio è stato qualcosa di diverso dai sanfedisti del cardinale Ruffo contro i giacobini. Perché tutto questo sarebbe propaggine estrema di un meridionalismo <piagnone> e rivendicazionista. Francamente (concludono) un epilogo del meridionalismo storico <forse prevedibile>, ma del quale c’è poco da rallegrarsi.
Se questo epilogo del meridionalismo storico (dalle mille facce, peraltro) era <forse prevedibile>, ci si chiede perché i nostri storici non siano intervenuti prima che diventasse grande. Raccontando in modo convincente una verità che evidentemente è messa in discussione. E chiedendosi perché lo è. Fino al punto che si istituisce una Giornata della Memoria che, oltre che commemorare, si propone di mettere appunto in discussione. Cioè discutere quanto era considerato indiscutibile, e indiscusso: il modo in cui si è fatta l’Unità d’Italia. Non di negarla.
I nostri docenti sanno bene che oggi i dogmi fanno venire l’orticaria anche a un papa Francesco. E che il tempo ha scalfito (senza che i Borbone c’entrassero nulla) altri dogmi. Quello della Resistenza, per dire, che fra l’altro è un secondo mito fondativo d’Italia dopo l’Unità, una Rifondazione. Tema sul quale il silenzio doveva impedire che emergessero risvolti di latente guerra civile pur per una sacra lotta che ci ha restituito alla democrazia e alla civiltà dopo il fascismo. Poi è venuto fuori un Giampaolo Pansa a parlarci del sangue dei vinti (l’eccidio dei fascisti) cui si è risposto stalinisticamente demonizzandolo. E figuriamoci quando ha parlato del sangue fra i vincitori, l’eliminazione di concorrenti scomodi per il futuro comunista che sognavano di imporre.
No, non si doveva parlare delle foibe, la pulizia etnica con la quale i partigiani jugoslavi di Tito regolarono a modo loro i conti con gli italiani considerati compromessi col regime. Cinquemila buttati nelle fosse. E per i quali si è istituito un Giorno del Ricordo oltre 60 anni dopo. Perché per tutto quel tempo gli storici che decidono ciò di cui si deve parlare o no avevano deciso che non se ne parlasse. Come ancòra non si parla delle centinaia di migliaia di italiani non solo deportati dalle terre dalmate-istriane ma accolti a sputi ovunque nel loro stesso Paese.
No, non si doveva parlare di Mussolini e di quel rapporto con gli italiani inizialmente più sentimentale che fra dittatore e sottomessi. E Renzo De Felice doveva chiamarsi Renzo De Felice perché non finisse dietro la lavagna in università nelle quali, più che aria, si respirava egemonia di sinistra. Magari, chissà, non si doveva parlare dell’Olocausto, e che pacchia sarebbe stata per chi continua a dire che è tutta una bufala. Non si doveva parlare, chissà, della pedofilia nella chiesa, e non se ne è parlato finché non è scoppiata fra i piedi di una chiesa cui neanche il suddetto Francesco riesce a raddrizzare la testa. E chissà, non si doveva parlare del patto Stato-mafia, delegato alla solita magistratura da una politica che mette la polvere sotto il tappeto come a volte gli storici.
E quanto alla temuta incursione nelle aule, è stato un Galli della Loggia a dire con sconcerto che ormai è sempre diffusa nelle scuole del Sud la convinzione che sull’Unità non l’hanno raccontata tutta. Allora gli storici si degnino di accompagnarsi con i loro critici nelle scuole, invece di lanciare i <niet>. Per parlare, non per tacere. Per spiegare ai ragazzi del Sud perché devono ancòra emigrare. Anche se c’è chi dice, basta, raccontiamo il Sud in altro modo, come comunque si fa. E se poi si accusa Emiliano di volere con l’operazione <politica> del 13 febbraio raggiungere il senso comune del suo <popolo>, cosa fanno contro questo senso comune: proibiscono e basta?
La Lega Nord è nata in Italia nel silenzio assordante degli storici, e non solo, meridionali. E la storia (non meno della chimica o della fisica o della medicina) si basa sull’evoluzione delle conoscenze, non sull’immobilismo dogmatico. Che allora sarebbe solo potere. No, non si abbia paura.

Lino Patruno
(Gazzetta del Mezzogiorno, 28 luglio 2017)