Piazza Mercato, Cuore di Napoli

Pagine da Vendita_dei_Comuni_e_vicende_della_Piazz

 

Ricerca a cura del Prof.Renato Rinaldi Luglio 2017
CIVILTA’ CAMPANA -COLLANA DI STUDI STORICI, ARCHEOLOGICI, FOLCLORICI, SOCIALI
SOSIO CAPASSO -VENDITA DEI COMUNI E VICENDE DELLA PIAZZA MERCATO DI NAPOLI
ISTITUTO DI STUDI ATELLANI

vendita dei comuni […]pag.DA 3 A 15

 

 

PIAZZA MERCATO, CUORE DI NAPOLI
Vita Corradini mors Caroli, mors Corradini vita Caroli: così il papa Clemente IV avrebbe espresso il suo punto di vista circa la sorte di Corradino di Svevia dopo la sconfitta da questi subita il 23 agosto 1268 nella battaglia del Ponte del Salto, ed il suo arresto ad opera di Giovanni Frangipane.
Non sappiamo se la frase attribuita al pontefice risponda a verità (il popolo napoletano vide l’intervento della giustizia divina nella morte di Clemente IV avvenuta solamente un mese dopo quella del giovane principe); fatto certo è che il vincitore Carlo d’Angiò aveva certamente già deciso per proprio conto la sorte del vinto, al fine di assicurare tranquillità al proprio regno. Tuttavia, se la feroce persecuzione dei sudditi che avevano parteggiato per l’invasore poteva essere giustificata facendo ricadere su di essi l’accusa di tradimento, ben più difficile era ammantare di legalità la condanna a morte di un prigioniero di guerra. Perciò, Carlo riunì in assemblea i maggiori giuristi del regno ed i sindaci dei casali del Principato e della Terra di Lavoro e ad essi chiese di essere illuminato circa la sorte di Corradino. Naturalmente i convenuti fecero a gara per compiacere il sovrano e furono tutti d’accordo sulla necessità di applicare la pena di morte. Corradino di Svevia e suo cugino, Federico d’Austria, furono giustiziati il 29 ottobre 1268, fuori le mura della città di Napoli, nella località detta Campo Moricino, poco lontano dal Monastero degli eremiti, che sorgeva accanto al Cimitero degli Ebrei.

Parte dell’antico Campo Moricino è l’attuale Piazza del Mercato ( Il presente articolo, pur seguendo un proprio autonomo indirizzo, prende spunto da due interessanti libri recentemente apparsi: quello di GABRIELE MONACO, Piazza Mercato, sette secoli di storia (Athena Mediterranea Editrice, Napoli) e quello di VITTORIO GLEIJESES, La Piazza Mercato in Napoli (Edizioni del Delfino, Napoli); il primo particolarmente documentato per il lungo ed attento esame condotto dall’A. sui documenti conservati nell’Archivio del Carmine, il secondo di pregevole edizione e di piacevole lettura)•
Al tempo dell’esecuzione di Corradino – primo tragico evento di una lunga serie che in quel luogo si sarebbe succeduta nel volgere dei secoli – le mura della città, dal solido castello di Capuana (l’odierna famosa porta), si dirigevano verso la Maddalena, costeggiavano il Moricino, proteggendo il così detto «Molo piccolo», cioè l’arsenale, per ricollegarsi, presso S. Maria La Nova, alla cerchia muraria preesistente.
Carlo I d’Angiò, intorno al 1270, dispose che il mercato fosse spostato da S. Lorenzo e S. Gennaro dell’Olmo al Campo Moricino, entro il perimetro delle mura, e ciò per accostarlo al porto, tenendolo, nel contempo, in una zona d’indubbio sviluppo urbano e commerciale. Più tardi, egli ordinò che si trasferissero qui i conciapellai, vi si erano già sistemati i calzolai. Era il tempo in cui le varie arti erano saldamente organizzate con propri Consoli e fu uno di questi, precisamente Domenico Punzo conciaio, che 83 anni dopo la tragica fine di Corradino, nel 1351, provvide all’erezione di una cappella votiva, dedicata alla S. Croce, ove venne conservata una pietra che la tradizione popolare indicava come quella su cui era avvenuta la decapitazione del giovane. La cappella era ornata di affreschi che effigiavano vari episodi dell’immatura fine del principe svevo e che, rifatti nel ‘500, scomparvero, con la distruzione del tempietto, a seguito di un incendio nel 1781; essi però fortunatamente ci sono noti, perché tramandati dal Summonte, il quale li riprodusse nell’edizione del 1675 della sua Storia della Città e del Regno di Napoli.

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I resti mortali di Corradino e di Federico, invece, per il vivo interessamento dell’arcivescovo di Napoli, Agglerio, presso il sovrano, non molto tempo dopo l’esecuzione che tanta commozione aveva suscitato nella pubblica opinione, avevano ricevuto onorata sepoltura dietro l’altare maggiore di una piccola chiesa tenuta dai Carmelitani e destinata a diventare, negli anni successivi, il famoso tempio del Carmine Maggiore, lustro e decoro di Piazza Mercato. Ed è sempre del 1270 la Bolla con la quale Carlo I d’Angiò concedeva ai Carmelitani il suolo per l’ampliamento della loro chiesa e del loro convento. Ma da quando in realtà i Carmelitani erano presenti nel Campo Moricino? Purtroppo non è possibile precisare la data, giacché i molti cruenti avvenimenti che si sono svolti in quella piazza, e che hanno sempre coinvolto il convento, sono stati causa della distruzione dei più antichi documenti dell’archivio.

Se si deve dar credito a quanto si legge in una Bolla di Sisto IV, già nell’anno 1175 i frati del Carmelo sarebbero stati presenti nella zona. Con altra donazione del 2 luglio 1270, stavolta a favore di tre francesi, Carlo I concedeva, sempre nel Campo Moricino, una vasta superficie, perché fosse edificata una chiesa, in onore dei Santi Dionisio, Martino ed Eligio, con annesso ospedale per assistervi i poveri.
Nel 1439 Alfonso d’Aragona cingeva Napoli d’assedio; egli aveva già occupato la maggior parte del regno e contava ora di impossessarsi della capitale. Mentre Alfonso si era attestato ad oriente della città, suo fratello, Don Pietro, aveva schierato le proprie truppe lungo il fiume Sebeto; da qui egli spostò parte dei suoi soldati e dei suoi mezzi, soprattutto le bombarde, nei pressi di S. Michele Arcangelo all’Arena, a breve distanza dal Carmine, sul cui campanile si erano appostati i Genovesi, venuti in soccorso degli Angioini. Un tremendo colpo di bombarda, diretto al campanile per diroccarlo, finì in chiesa e miracolosamente non frantumò il grande Crocifisso ligneo, capolavoro del ‘300. Qualche giorno dopo, dal campanile, un altro colpo di bombarda angioino fulminava Don Pietro. La città resistette lungamente e non si arrese agli Aragonesi che nel 1442. Il campanile del Carmine, una delle note più caratteristiche di Napoli, veniva così a trovarsi, per la prima volta, al centro di un tragico avvenimento. Esso ha subito varie trasformazioni lungo il corso dei secoli, per cui oggi risulta un insieme di stili vari: ionico, dorico, corinzio; la parte terminale, a forma di piramide, è del 1631 ed è dovuta al domenicano Fra Nuvolo, autore della celebre basilica napoletana di S. Maria della Sanità.

«Questa sollevazione ebbe principio da venticinque in trenta fanciulli, ciascheduno dei quali non passava li quindici anni, e che si erano uniti nella piazza del Mercato, con le canne in mano, con alcuni giochi puerili, in onore della Beatissima Vergine.
Detti fanciulli, trovatisi a caso presenti al luogo dove si pagava la gabella dei frutti, mentre per certa differenza occorsa col gabelloto ne furono gettati via alcuni sportoni, presane buona parte, ne facevano allegrezza grande fra loro. Un tal Masaniello pescatore, giovane di vent’anni, ch’era anche lui presente, fattosi capo di detti fanciulli e di altri che accorsero e s’unirono, e montato sopra di un cavallo che stava nella piazza, disse che si levi la gabella dei frutti: ad un batter d’occhi si unirono con lui migliaia e migliaia di persone di popolo, e tutte, sotto la sua guida, s’incamminarono verso il palazzo del Viceré; per la strada givano sempre crescendo, onde in poche ore, arrivarono al numero di cinquanta in sessantamila, e si sollevò tutta la città, e fu domenica 7 del passato, conforme scrissi a Vostra Santità …»(MOISE’, Storia dei domini stranieri in Italia, Vol. VI, pag. 254, in G. MONACO, op. cit.)•
Così il cardinale Ascanio Filomarino, arcivescovo di Napoli durante il vicereame del Duca d’Arcos, illustrava al pontefice Innocenzo X l’inizio della rivolta di Masaniello del 7 luglio 1647.
Tommaso Aniello d’Amalfi era nato a Napoli, e precisamente nel popolare rione del Lavinaio, nel 1620; era stato battezzato nella chiesa parrocchiale di S. Caterina in Foro Magno (La chiesa fu quasi distrutta dai bombardamenti durante la seconda guerra mondiale.), in Piazza Mercato, ed ivi aveva contratto matrimonio il 25 aprile 1641: al tempo quindi della celebre insurrezione, della quale fu suscitatore e capo, aveva non venti ma ventisette anni.
Come mai un modestissimo pescatore, privo di qualsiasi preparazione, poté avere una parte tanto importante in uno degli eventi storici più notevoli della storia di Napoli, un evento al quale è per tanta parte legata la fama dell’antico Campo Moricino e che ebbe riflessi di portata internazionale? Si afferma da più parti che la «mente» di Masaniello fu quel Giulio Genoino, nato a Cava dei Tirreni nel 1567, il quale per tutta la sua vita, per altro agitata e non sempre chiara, perseguì il fine di ottenere dal governo vicereale la parificazione dei diritti fra nobili e plebei.
Il Genoino discendeva da famiglia economicamente prospera, la quale praticava da oltre un secolo l’arte della seta e che si era trasferita a Napoli, propriamente nella zona fiorente di attività artigiane di S. Giorgio a Forcella; una delle famiglie, quindi, appartenenti a quella classe borghese che andava sempre più prendendo corpo e che già mal sopportava di non godere della pienezza dei diritti, in quanto considerata, sotto il profilo costituzionale, parte del terzo stato. Giulio aveva preso gli ordini ecclesiastici minori e si era addottorato in legge. La riforma costituzionale da lui auspicata, fondata, a suo avviso, sull’esistenza di un preciso impegno giuridico in un privilegio sancito da Carlo V, sembrò trovare possibilità di conferma quando il viceré duca di Ossuna lo nominò «eletto del popolo» nel 1619. Egli pubblicò, allora, un manifesto al «fedelissimo popolo» e rivolse una supplica al sovrano Filippo III per ottenere la desiderata perequazione fra ceto popolare ed aristocrazia, parificazione che sarebbe tornata a tutto vantaggio della borghesia, la quale disponeva di cospicui mezzi finanziari e già poteva contare su propri esponenti ben preparati. Una delle più lucrose attività era allora l’incetta del grano, cui era legata la fortuna di moltissime famiglie, specialmente in Puglia. Su tale argomento il Campanella dal carcere aveva scritto nel 1605 una memoria diretta al viceré Bonavente: «Arbitrii sopra le entrate del regno di Napoli», chiedendo il massiccio intervento dello Stato al fine di impedire le gravi conseguenze di ordine sociale, che dall’incetta derivavano. Più tardi, nel 1612, il viceré conte di Lemos aveva tentato di arginare la grave crisi che travagliava il reame concedendo ogni possibile facilitazione ai banchieri ed ai mercanti genovesi disposti ad investire denaro nel Napoletano. I Genovesi erano, peraltro, già notevolmente presenti, anche se non sempre graditi ai commercianti locali; la loro attività si rivelava tanto più necessaria quanto più i banchi pubblici napoletani si mostravano incapaci di assolvere una efficace funzione creditizia.
Nel 1613 una voce nuova, anch’essa dal fondo di un carcere (quello della Vicaria) si inseriva nella complessa polemica economica che, senza successo, si andava agitando da anni: quella di Antonio Serra con il «Breve trattato delle cause che possono fare abbondare li Regni d’oro e d’argento dove non sono miniere con applicazione al Regno di Napoli». Egli poneva in evidenza la necessità di attuare un processo d’industrializzazione del Meridione incoraggiando la libera iniziativa, eliminando ogni forma di sfruttamento, sia di natura feudale, sia di carattere fiscale da parte dello Stato, perché da esso non derivava altro che miseria (S. CAPASSO, Vendita dei Comuni ed evoluzione politico-sociale nel Seicento, in «Rassegna storica dei Comuni», 1970)•
Ben a ragione il Serra è indicato come «il primo meridionalista moderno» (R. COLAPIETRA,11governo spagnolo nell’Italia meridionale, in «Storia di Napoli», vol. V, tomo I, Napoli, 1972.)•
Naturalmente l’avvio di una efficace riforma, capace di sollevare lo stato dell’economia e di avviare un effettivo processo di evoluzione, era quanto mai difficile, tenuto conto dei molteplici, complessi e contrastanti interessi in gioco. Le iniziative del Lemos facevano perno sulla borghesia più pingue e sui mercanti forestieri, ma ignoravano gli interessi della nobiltà cittadina e di quella provinciale, feudale, la quale resisteva imponendo il proprio predominio nelle campagne mediante il terrorismo imposto da bande di briganti, da essa organizzate e finanziate.
D’altro canto i tentativi dei viceré di Napoli per arginare le gravi carenze economiche del regno non trovarono mai il pieno appoggio del Governo di Madrid, il quale conseguentemente, si astenne sempre da ogni intervento inteso a coordinare ed a guidare le varie iniziative. Il frequente mutamento dei viceré, dettato evidentemente dal desiderio di evitare lunghe permanenze in una carica tanto prestigiosa (permanenza che avrebbe potuto rivelarsi pericolosa per la tranquillità della corona), era, peraltro, di serio ostacolo ad una politica economica costante con obiettivi precisi. Dopo il Lemos, infatti, il duca di Ossuna, perseguendo un suo disegno filopopolare, nel quale taluni vedranno persino una segreta aspirazione al distacco di Napoli dalla Spagna ed alla costituzione di una monarchia meridionale basata sulla sua persona, procederà, nel 1618, al sequestro dei beni dei mercanti genovesi e li terrà bloccati per dieci mesi, malgrado le esortazioni e le pressioni di Madrid. E’ evidente che l’Ossuna ripudiava i principi che avevano guidato il suo predecessore e tendeva ad ingraziarsi l’aristocrazia e la plebe.

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Napoli – Il campanile della basilica del Carmine, la cui cuspide barocca è rivestita di mattonelle maiolicate. Il monumento contrasta oggi fortemente con gli enormi edifici di cemento armato sorti nella storica piazza.
E’ in questa atmosfera che si colloca la scelta del Genoino quale «eletto del popolo» e l’annuncio delle sue linee programmatiche espresse nel discorso del 6 maggio 1620 a Palazzo Reale, con le quali egli si proponeva di far cadere sui nobili il peso del deficit cittadino e, per giungere a un più diretto contatto fra il popolo ed il viceré, di costituire una giunta di Governo formata da esponenti della borghesia. Il richiamo in patria dell’Ossuna segnò, ovviamente, la fine delle speranze del Genoino, il quale fu anche costretto ad allontanarsi dal regno. Ma la situazione economica non migliorò, né con il viceré cardinale Antonio Zapata, costretto ad autorizzare i banchi a vendere i pegni, per ricostituire una certa liquidità monetaria, ed a sospendere i pagamenti, per cercare di arginare il processo di svalutazione; né con i successori di questi, i quali passarono dai tentativi di riforma all’attuazione di principi autoritari, vale a dire andando di male in peggio: le costanti gravi richieste di contributi da parte del Governo centrale, l’arruolamento forzato dei contadini, l’imposizione di sempre nuovi balzelli esasperavano il già vivo malcontento di tutte le categorie sociali, dalla plebe all’aristocrazia, dalla borghesia mercantile alla nobiltà cittadina.
Tale generale malessere, diventato sempre più acuto col passare degli anni, spiega il successo dell’insurrezione del 7 luglio 1647 e la prestigiosa ascesa di Masaniello, assurto nel giro di poche ore da povero pescivendolo a supremo arbitro delle sorti del vicereame. Napoli era diventata una polveriera pronta ad esplodere per iniziativa di chicchessia. Immediatamente, intorno al popolare personaggio s’intrecciano gli interessi più vari e contrastanti; ci sono coloro che mirano esclusivamente allo sgravio fiscale e che ritengono conclusa la rivoluzione dopo il colloquio di Mase Carrese, capo di una delegazione popolare, con il viceré duca d’Arcos e dopo la grossa manifestazione del pomeriggio dello stesso giorno dinanzi al Palazzo Reale; ci sono quelli che, come il Genoino ed i suoi più fedeli seguaci, quali Francesco Antonio Arpaia e Giuseppe Sanvincenzo, ripropongono la riforma costituzionale, sulla base del «privilegio di Carlo V», e ritengono, perciò, appena iniziata la lotta; germogliano, infine, coloro che intessono trarne con i Francesi e sono già, come il famigerato bandito Perrone, in contatto con il duca di Guisa, che si trova a Roma.
In tale intricatissima situazione assume un ruolo di primo piano il cardinale Ascanio Filomarino, arcivescovo di Napoli, indubbiamente simpatizzante dei Francesi, ma impegnato nel seguire un proprio disegno autonomo, tanto da indurre Masaniello a designarlo capo dell’Unione Popolare nella memorabile giornata dell’11 luglio, nella chiesa del Carmine, nel corso di un’imponente assemblea popolare convocata per la ratifica dei capitoli concordati con il viceré. Tale atto significherà anche, per Masaniello, la rottura con il Genoino, il quale passerà dalla parte del duca d’Arcos e costituirà la premessa per la fine violenta del pescivendolo-capitano generale del popolo; egli sarà massacrato, nel convento del Carmine in Campo Moricino, il 16 luglio 1647, mentre nella chiesa adiacente il cardinale celebrerà la festività della Madonna.

La scomparsa del Masaniello però non determina la fine dell’insurrezione, come da più parti si era sperato, né sposta l’epicentro del movimento dall’attuale Piazza Mercato. E’ del 12 agosto seguente la vasta dimostrazione operaia che rivendica il diritto della libera esportazione della seta greggia, praticata sinora da poche comunità religiose controllate dalla più potente borghesia: si tratta, in sostanza, di una vera e propria sollevazione intesa ad infrangere antichi privilegi, scavalcando anche i recenti accordi con il viceré ed emarginando totalmente il Genoino, il quale, per altro, è già passato dall’altro lato della barricata, come s’è già detto.
Il 21 agosto 1647 hanno luogo i primi scontri fra popolani e truppe spagnole; il giorno dopo Giannettino Doria tenta di bloccare la città dal mare, provocando una violenta reazione popolare contro i Genovesi e Francesco Toraldo principe di Massa è nominato successore di Masaniello nella carica di capitano generale. Troppe divisioni si agitano in seno agli insorti; nelle loro mani sono due potenti edifici fortificati: il Torrione del Carmine, governato dall’armaiolo Gennaro Annese, e S. Lorenzo, sede dell’autorità cittadina. I vari capi, però, seguono ciascuno un proprio disegno; anche coloro che guardano alla Francia non sono concordi, auspicando chi la pura e semplice protezione di Luigi XIV, chi una repubblica retta dal duca di Guisa.
La situazione così aggrovigliata è resa ancora più irta di pericoli dall’improvviso arrivo della flotta spagnola, il 1° ottobre 1647, guidata da don Giovanni d’Austria: è evidente che Madrid si orienta verso una soluzione di forza, ma di contro si profila la possibilità di una mobilitazione popolare in tutto il regno in soccorso dei ribelli di Napoli. Trattative affannose hanno luogo con il viceré; per poco i principi riformatori del Genoino sembrano tornare a galla, ma il 15 ottobre le truppe spagnole sbarcano a S. Lucia e si spingono sino a Pizzofalcone, a porta Medina, a Toledo; il forte S. Elmo e la flotta bombardano la città; l’Annese, dal torrione del Carmine, risponde ed il Toraldo si trincera con i suoi nel Largo S. Domenico. Il 7 ottobre il popolo è dappertutto alla controffensiva; l’Annese respinge la flotta spagnola, impadronendosi anche delle fosse del grano; il carcere della Vicaria è espugnato ed uno dei maggiori esponenti del partito francofilo, Luigi Del Farro, è liberato.
Gli avvenimenti si seguono con ritmo affannoso: nuovi tentativi di accordo sono ostacolati dalla parte più conservatrice dell’aristocrazia asserragliata a Castel Nuovo. Il Del Farro, lo Annese e Vincenzo D’Andrea rivolgono un appello, a nome del popolo napoletano, a tutte le potenze della cristianità per ottenere «aiuto, difesa et protettione» contro l’odioso fiscalismo degli Spagnoli; il Toraldo, accusato di intesa segreta con il nemico, è giustiziato con esecuzione sommaria. Si giunge così alla proclamazione della repubblica; alla non veritiera dichiarazione di Del Farro, il 25 ottobre 1647 nella chiesa del Carmine, dell’ottenuto pieno appoggio da parte della Francia; all’attacco generale degli Spagnoli, nella notte del 28 ottobre, attacco ancora vittoriosamente respinto dai popolani; alle sollecitazioni dell’ Annese al duca di Guisa di raggiungere subito Napoli.
Tutto ciò non scoraggia i fautori di un accordo con gli Spagnoli ed i tentativi continuano, soprattutto ad opera degli esponenti del capitalismo forestiero, specialmente i Genovesi: ciò induce don Giovanni d’Austria a trasferirsi a Palazzo Reale per mostrare la sua disponibilità. Ma il 15 novembre giungo Enrico di Lorena, duca di Guisa; il 17 egli presta giuramento nel duomo di Napoli, nelle mani del cardinale Filomarino, assumendo il compito di difensore e protettore della repubblica; il 24 riceve, nella sede ove si è installato, al Carmine, la promessa di fedeltà da parte dei cavalieri di seggio. Nelle campagne, intanto, i grandi feudatari continuano a spargere il terrore ed Acerra, centro importantissimo per i suoi mulini, cade nelle mani del principe di Montesarchio. Il 14 dicembre il Guisa pone il campo a Giugliano, ufficialmente per impedire il blocco della città e garantirne i rifornimenti, in effetti per trattare proprio con la nobiltà feudale; alle sue spalle, però, coloro che lo hanno sollecitato a venire sono in aperto conflitto, soprattutto l’Annese contro il D’Andrea ed il Filomarino, alla ricerca di un suo preciso ruolo politico.
Poi, d’improvviso, un nuovo colpo di scena: la flotta francese si schiera al largo del porto di Napoli; il suo ammiraglio, duca di Richelieu, si pone in contatto con i maggiori esponenti filofrancesi del moto popolare, ma ignora volutamente il cardinale. Per il 23 dicembre è annunziata la proclamazione del duca d’Orleans, fratello di Luigi XIV, a re di Napoli, proclamazione che dovrà avvenire in S. Agostino, ma il duca di Guisa, informato tempestivamente, rientra trafelato a Napoli, occupa il Carmine, costringe le poche truppe francesi sbarcate a tornare a bordo, batte l’Annese ed il 24 dicembre, sempre a S. Agostino, si fa nominare duca della repubblica e si installa a S. Lorenzo, prima, e poi al palazzo Santobuono, a S. Giovanni a Carbonara.
La causa degli Spagnoli va ormai rapidamente guadagnando terreno; i poteri vicereali sono passati dal duca d’Arcos a don Giovanni d’Austria, il quale ha intrapreso una saggia politica distensiva, sia verso gli aristocratici, sia verso i ceti più umili, promettendo sgravi fiscali ed indulto; viceversa, il duca di Guisa viene sempre più isolato, la nobiltà si allontana da lui e le masse popolari non ubbidiscono che ai propri capi, come dimostra la fallita mobilitazione armata dell’odierna Piazza Mercato il 14 febbraio 1648, da lui ordinata ma non appoggiata dall’Arnese e dai suoi amici. Il 28 febbraio ha luogo addirittura una manifestazione ostile dinanzi al palazzo Santobuono. Giunge, intanto, il nuovo viceré conte di On.ate, il quale porta a buon fine le trattative con le varie componenti cittadine, domate anche dalla stanchezza e dalla carestia. Ciò induce il duca di Guisa a partire per una fantomatica spedizione militare contro l’isola di Nisida, mentre i pochi che ancora lo sostengono si disperdono o cadono sotto i colpi degli avversari.

La rivolta di Masaniello (celebre quadro di Domenico Gargiulo conservato nel Museo di San Martino).
Con la Pasqua del 1648 Napoli è tornata ad essere saldo possesso degli Spagnoli: la rivoluzione di Masaniello è adesso veramente finita. Resta solamente l’Annese, il quale, asserragliato nel munitissimo torrione del Carmine, si prepara a resistere a tempo indeterminato.


Doveva trascorrere oltre un secolo e mezzo prima che a Napoli si tornasse a parlare di repubblica. E’ del gennaio 1799 la nascita della Repubblica Partenopea, frutto delle vittorie napoleoniche, che sembravano tali da travolgere tutto il vecchio mondo di privilegiati e di servi, tutte le pesanti barriere che da sempre dividevano le classi sociali, ed instaurare anche nel Mezzogiorno d’Italia i principi di libertà e di uguaglianza portati in trionfo dalla Rivoluzione francese.
Uomini d’altissimo sentire reggevano le sorti della rinnovata nazione napoletana, quali l’ammiraglio Francesco Caracciolo, Eleonora Pimentel Fonseca, Francesco Conforti, Domenico Cirillo, Mario Pagano, Vincenzo Russo, ed altri ancora. Ma essi erano degli isolati; i loro ideali non erano condivisi dalle masse popolari. I clubs nei quali si riunivano e dai quali tentavano di «diffondere i principi della rivoluzione repubblicana e della morale pubblica» (J. GODECHOT, La Grande Nazione –
L ‘espansione rivoluzionaria della Francia nel mondo(1789-1799), Bari, 1962.) erano ritrovi per una ristrettissima cerchia di intellettuali, senza eco alcuna all’esterno, per cui finivano col diventare sedi di astratte discussioni, tanto che più tardi il Cuoco ed il De Nicola addosseranno addirittura alla inconcludente attività di questi circoli il crollo della Repubblica.
In effetti, i tempi erano immaturi e le plebi tanto abbrutite da secoli d’ignoranza e di miseria da non saper neppure discernere da quale parte fossero i propri reali interessi: da ciò la facile vittoria del cardinale Ruffo e del Nelson. Il forte del Carmine fu tra gli ultimi baluardi repubblicani a cadere, il 14 giugno 1799. L’occupazione della città da parte delle soldataglie sanfediste fu seguita da stragi e da saccheggi senza precedenti.
Al Mercatello «l’albero della libertà, che sorgeva in mezzo a quella piazza, era stato spiantato e atterrato dai calabresi e dai lazzaroni, …; a piede dell’albero erano portate frotte di prigionieri, come bovi al macello, e fucilati alla peggio; e quei feroci morti o semivivi li decapitavano, e le teste mettevano sopra lunghe aste o le adoperavano per divertimento, rotolandole per terra a guisa di palle» (B. CROCE, La rivoluzione napoletana del 1799, Bari, 1927)•
Potettero essere sottratti al furore della plebaglia solamente coloro che furono trascinati dinanzi al cardinale Ruffo, il quale, mostrando a bella posta la maggiore severità, ordinava che fossero chiusi in carcere. In quelle ore di sangue, atti di viltà e di eroismo si susseguivano; tradiva la fede giurata alla Repubblica il duca di Roccaromana, che passava al nemico con i reparti di cavalleria da lui comandati, ma, quasi contemporaneamente «in una sala detta patriottica, dove ogni dì si accorreva a far fede di libertà, vi era un libro pubblico, dove ciascuno, a gara, apponeva il suo nome; e quando le cose volsero in rovina … i più timidi supplicavano che il pericoloso libro si nascondesse, quando fu veduto un giovane di sedici anni avanzarsi e scrivervi il suo nome, Guglielmo Pepe …» (F. DE SANCTIS, Saggi critici, Vol. III, p. III, Milano, 1921.)•
Sono noti gli sforzi del cardinale Ruffo per salvare la vita dei maggiori responsabili della repubblica. Egli aveva, infatti, stipulato con essi un accordo, controfirmato anche dai rappresentanti dell’Inghilterra, della Russia e della Turchia, in virtù del quale quanti fra loro avessero voluto restare nel regno avrebbero potuto farlo senza pericolo, mentre coloro che avessero preferito l’esilio avrebbero potuto imbarcarsi su navi fomite dalla stessa parte borbonica. Ma l’ammiraglio Nelson si dichiarò subito contrario all’accordo ed i Sovrani dalla Sicilia furono del suo parere. Il Ruffo inutilmente offrì ai repubblicani salvacondotti perché si allontanassero subito da Castel Nuovo e da Castel dell’Ovo, ancora in loro possesso, e si dileguassero via terra: non fu creduto; i patrioti preferirono imbarcarsi e dalle navi furono prelevati, incatenati ed imprigionati. Forse il generale francese Méjan, il quale ancora teneva Sant’Elmo e nelle cui mani erano gli ostaggi regi consegnati quale pegno della leale esecuzione dell’accordo, avrebbe potuto salvare quegli infelici, ma al momento si rivelò inetto e vile, accettando una capitolazione vergognosa. La parola adesso era a quel giudice Vincenzo Speciale, strumento della più disumana e stolida vendetta, voluta essenzialmente dalla regina Maria Carolina. Teatro di tale vendetta? Piazza Mercato, ove il patibolo avrebbe funzionato quotidianamente con tale intensità da far ritenere opportuna la riduzione dell’onorario al carnefice, perché non diventasse eccessivamente ricco (V. CUOCO, Saggio storico sulla Rivoluzione di Napoli, Firenze, 1865)•
Ancora una volta quindi l’antico campo Moricino diverrà luogo di esecuzioni sommarie e vedrà accatastarsi cadaveri sepolti poi alla rinfusa sotto i pavimenti delle varie chiese circostanti, soprattutto di quella del Carmine. In un certo senso, sarà come rivivere i giorni lontani della terribile pestilenza del 1656, quando buona parte degli innumerevoli morti furono gettati alla men peggio nelle quattro ampie fosse dell’annona nella stessa piazza; ma allora, almeno, non era la mano dell’uomo a compiere la carneficina.
Cadono a decina sotto la mannaia o strozzati dal capestro, tra il tripudio incomposto del popolaccio: Mario Pagano e Domenico Cirillo, Ignazio Ciaia e Francesco Conforti, Eleonora Pimentel Fonseca e Vincenzo Russo, il prete Nicola Pacifico ed il frate Giuseppe Belloni, Gabriele Mantoné ed Ettore Carafa, Pasquale Matera e Nicola Fasulo, Gennaro Serra duca di Cassano e Oronzo Massa duca di Galugnano, il generale Francesco Federici ed il sacerdote Ignazio Falconieri, i cinque Pignatelli, il prelato Troise ed i vescovi Sarno e Natale, per non nominare che i più noti. Ultima a cadere, dopo quasi due anni di agonia nel disperato
tentativo, da parte dei medici, di salvarla adducendo una inesistente gravidanza, fu Luisa Sanfelice. Lo stesso Ferdinando dovette certamente avvertire il peso dell’infamia di cui si era coperto se nel 1803 ordinò che tutti gli incartamenti processuali di quella barbara persecuzione venissero distrutti. Non dovette, però, sfiorargli la mente l’idea che, consentendo quelle stragi, egli aveva dato l’avvio alla fine della sua casa che sarebbe stata costretta d’ora in poi ad appoggiarsi alla parte più abbietta della popolazione, giacché il ceto colto ed illuminato le avrebbe voltato definitivamente le spalle. Di tanto egli ebbe capacità di accorgersi solo qualche anno dopo, quando i Francesi tornarono e, pur tra resistenze e difficoltà, trovarono una base ben più ampia di consensi. Essi lasciarono un seme ferace, destinato a generare i moti del 1820, del 1848 ed, infine, il crollo della dinastia borbonica.


Oggi Piazza Mercato è costellata di enormi edifici di cemento armato, ma rimane pur sempre il centro fervidamente operoso della città di Napoli, una delle sue zone più caratteristiche, con il brulicare di gente e di voci, e percorsa dai più svariati mezzi di trasporto. La chiesa del Carmine ed il suo caratteristico campanile sono là, meta costante di pietose rievocazioni storiche. Napoletani e stranieri sostano commossi dinanzi all’effige di Corradino nel tempio monumentale; pochi ricordano le gloriose vittime del 1799, alcune delle quali riposano poco lungi, nella chiesa annessa all’antico convitto del Carrninello, che contribuì per oltre tre secoli all’educazione civile e morale dei fanciulli delle più umili famiglie di quel rione. Tale complesso di edifici è ora affidato all’Amministrazione dei Collegi Riuniti e la chiesa è stata chiusa al culto. Ci si ricorderà ancora dei martiri della rivoluzione partenopea ivi sepolti, quando quel posto sarà occupato, come già si vocifera, da negozi e vani destinati ad uso commerciale?

 

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BIBLIOGRAFIA

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