O votare per il “sì” o saltare nel buio
Così l’Italia nacque da un plebiscito in cui non c’era scelta
L’annessione del Regno delle due Sicilie fu sancita attraverso le urne, ma era un fatto compiuto. Il ricorso al popolo si trasformò soprattutto in un fatto simbolico. Il consenso di massa comunque ci fu. Del resto l’alternativa sarebbe stata il caos assoluto
Francesco Perfetti – Mer, 17/05/2017
In alcune pagine famose del suo celebre romanzo Il gattopardo lo scrittore Giuseppe Tomasi di Lampedusa racconta il giorno «ventoso e coperto» del plebiscito per l’annessione al Regno d’Italia a Donnafugata: nel paese si aggirano «stanchi gruppetti di giovanotti con un cartellino recante tanto di sì infilato nel nastro del cappello» mentre nella taverna contadini muti ascoltano due o tre «faccie foreste» che decantano il futuro di «una rinnovata Sicilia unita alla risorta Italia».
A notte fatta, dal balcone centrale del Municipio, il sindaco annuncia alla folla che dei 515 aventi diritto hanno votato in 512 che si sono espressi tutti per il sì. Il principe don Fabrizio commenta il risultato, durante una partita di caccia, con l’organista don Ciccio e scopre, dalle parole di questi, che l’unanimità non c’è stata: «Io, Eccellenza, avevo votato no. No, cento volte no. So quello che mi avevate detto: la necessità, l’unità, l’opportunità. Avete ragione voi: io di politica non me ne sento. Lascio queste cose agli altri. Ma Ciccio Tumeo è un galantuomo, povero e miserabile, coi calzoni sfondati e il beneficio ricevuto non lo aveva dimenticato; e quei porci in Municipio s’inghiottono la mia opinione, la masticano e poi la cacano via trasformata come vogliono loro. Io ho detto nero e loro mi fanno dire bianco!». E, ancora, un altro grande narratore, Federico De Roberto, nel più celebre dei suoi romanzi, I Viceré, rievoca con pennellate suggestive il clima di incertezza, timori, entusiasmi di quel plebiscito che avrebbe sancito l’annessione al Regno d’Italia dei territori dell’ex Regno delle Due Sicilie: i sì colossali «tracciati sui muri, sugli usci, per terra»; le «frotte di persone» che quei sì «li portavano al cappello, stampati su cartellini d’ogni grandezza e di ogni colore»; e, infine, quell’enorme sì tracciato col gesso dal principe di Francalanza sul muro della sua villa «per precauzione» davanti alla folla schiamazzante di «contadini scioperati» mentre, all’interno, don Eugenio «dimostrava, con la storia alla mano, chela Sicilia era una nazione e l’Italia un’altra».
In queste pagine sono accennati, sia pure attraverso la trasfigurazione letteraria di Tomasi di Lampedusa e di De Roberto, alcuni motivi della polemica antirisorgimentale e antiunitaria che emerse già allora e che sarebbe stata sviluppata in seguito dalla letteratura antisabauda e filoborbonica. A cominciare, proprio, dai plebisciti i cui risultati sarebbero stati manipolati e comunque non rappresentativi della volontà popolare, convocati per rispondere a un preciso quesito: «Il popolo vuole l’Italia Una e Indivisibile con Vittorio Emanuele Re costituzionale e i suoi legittimi discendenti?».
È possibile, forse anche probabile, che brogli, manomissioni, irregolarità avessero interessato sia il plebiscito del 21 ottobre 1860 sia quello del 4 novembre 1860. Tuttavia l’entità della partecipazione popolare e il carattere quasi unanimistico del risultato rendono ininfluenti le critiche soprattutto se si tiene conto delle manifestazioni di sostegno popolare che avevano accompagnato sia l’avanzata delle truppe garibaldine sia la marcia dell’esercito piemontese. Basti pensare, a titolo esemplificativo, che, secondo i dati ufficiali, nelle province napoletane si registrarono 1.302.064 voti favorevoli all’annessione contro 10.312 voti contrari. E andamento non diverso, in termini di risultati e di percentuali, si registrò in tutti gli altri territori.
Le intimidazioni, le violenze, le irregolarità denunciate dalla letteratura antisabauda e antirisorgimentale vi furono, dunque, certamente ma, come ha osservato Rosario Romeo, «in misura ridotta» e soprattutto con una capacità di «incidenza» di gran lunga inferiore a quella dovuta «alle oggettive condizioni in cui si svolse la votazione». In quel momento, infatti, al di là dei contrasti fra moderati e democratici, i «militanti del movimento nazionale» si erano ritrovati attorno alla tesi annessionista e avevano maturato una forte capacità persuasiva o di direzione politica nei confronti di masse analfabete che si trovavano a dover operare una scelta tra Vittorio Emanuele, da una parte, e il salto nel buio, dall’altra parte, essendo esclusa l’ipotesi di una restaurazione borbonica. A tutto ciò va aggiunto, secondo Romeo, il fatto che a spingere in direzione annessionistica, come ben risulta dalle numerose petizioni presentate da tempo, c’erano le preoccupazioni largamente diffuse negli ambienti più benestanti per il ripristino dell’ordine e della legalità.
Del resto, il plebiscito dell’ottobre e del novembre 1860 (ma non solo quello) fu concepito e vissuto non tanto come vera e propria consultazione elettorale quanto piuttosto come rito, come festa di consacrazione della unità nazionale o, se si preferisce, della nazione. Le coccarde tricolori appuntate sui vestiti, i cartelli inneggianti al Re e lo stesso capillare attivismo propagandistico per il sì dei giorni immediatamente precedenti le votazioni sono tutti elementi che sottolineano il carattere simbolico e rituale prima ancora che di consacrazione giuridica di una situazione di fatto che era stato attribuito all’evento da chi, il conte di Cavour prima di tutti, lo aveva promosso.
Quel plebiscito in effetti al netto delle critiche relative ai meccanismi procedurali ovvero all’astensionismo, alle polemiche sulle modalità di svolgimento o infine ai suoi stessi risultati rappresentò, comunque, proprio da un punto di vista simbolico, il momento conclusivo di una fase importante del Risorgimento, quella culminata nel biennio 1859-1860. Un biennio, come ha ben sottolineato il grande storico Gioacchino Volpe, nel quale maturò una fattiva collaborazione tra le varie forze che operavano sulla scena politica: l’esercito regio e quello dei volontari, Cavour con i moderati e Garibaldi con le camicie rosse. Quel grido «Italia e Vittorio Emanuele», che finì per accompagnare l’avanzata dei garibaldini alla conquista del Regno delle Due Sicilie, sintetizzava, in fondo, il processo di avvicinamento della monarchia sabauda alla popolazione, una specie di «nazionalizzazione» dell’istituto: un processo che avvenne, in questo momento, grazie soprattutto all’opera accorta del conte di Cavour. Fu lo statista piemontese, infatti, ad adoperarsi per evitare che l’impresa garibaldina, spingendosi fino a Roma, potesse innescare urti difficilmente contenibili con la Francia e alterare in qualche misura gli equilibri internazionali: la sua preoccupazione fu tutta rivolta a impedire che si scatenassero e avessero successo forze troppo apertamente rivoluzionarie che avrebbero finito per impensierire l’Europa dinastica e per provocare seri danni politici come era accaduto ai tempi del 1848. In questo quadro Cavour, pur di mantenere al moto italiano un carattere moderato e monarchico, si era convertito, di fronte all’iniziativa garibaldina, alla prospettiva unitaria mettendo da parte quei progetti di trasformare la penisola in una specie di confederazione che erano stati alla base dell’accordo con l’imperatore dei francesi.
Così avevano finito per ritrovarsi insieme anche nel sostegno al progetto annessionistico confluito nel plebiscito tanto i moderati cavourriani quanto gli esponenti della sinistra democratica. Questi ultimi potevano vantare una sorta di «riscatto morale» rispetto alle sconfitte e alle delusioni che ne avevano accompagnato la storia durante il decennio precedente. Non a caso, uno dei più importanti fra loro, Francesco Crispi, avrebbe scritto con malcelato (pur se non del tutto giustificato) orgoglio: «noi con le sole forze popolari abbiamo affrancato dieci milioni di uomini dalla tirannide borbonica, abbiamo raddoppiata la potenza nazionale, abbiamo dato a Casa Savoia quel trono che Cavour non avrebbe immaginato poter costruire con tutto il sussidio delle armi straniere». Ma Cavour avrebbe potuto rispondere, e ben a ragione, che la realizzazione dell’unità d’Italia sotto la monarchia sabauda era stata resa possibile dalla convergenza di forze diverse e avrebbe potuto aggiungere che la guida ad opera dei moderati del moto risorgimentale aveva fatto sì che questo fosse visto e percepito a livello internazionale non già come un fattore eversivo del sistema di equilibrio delle potenze europee ma piuttosto come la manifestazione italiana di un fenomeno la rivoluzione delle nazionalità di ben più vasta portata.
In questo quadro assume una logica simbolica ben precisa quella, appunto, di sanzionare la convergenza delle volontà di moderati e rivoluzionari la scelta adottata nel corso del Risorgimento di utilizzare uno strumento, quello del plebiscito, che risaliva quale mezzo di legittimazione della sovranità popolare al periodo rivoluzionario francese. E, in particolare, i plebisciti del 1860 segnano il momento conclusivo del Risorgimento perché costituiscono la premessa per la proclamazione del Regno d’Italia che avverrà pochi mesi dopo, il 14 marzo 1861, i forma solenne a Torino.