IL GOVERNATORE CAMPANO VINCENZO DE LUCA E I BORBONI (sic!)
Per polemizzare con il sindaco di Napoli, Luigi De Magistris, il presidente della Regione ironizza sulla riscoperta delle identità storiche ieri ad una manifestazione sotto il sorriso divertito del deputato Pd, Leonardo Impegno. Salvo poi applaudire, oggi, quando all’inaugurazione del museo ferroviario di Pietrarsa, con il capo dello Stato Sergio Mattarella, è stata esaltata la “lungimiranza” di Ferdinando II di Borbone che volle quell’industria siderurgica che anticipò la Breda, l’Ansaldo e la Fiat. (GigiDi Fiore)
Mattarella a Pietrarsa, una lettera gli chiede: ricordi la strage operaia L’opificio nel 1863 fu teatro del primo eccidio di lavoratori in sciopero
di Vincenzo Esposito
Stamattina (31 marzo 2017) il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, inaugurerà i nuovi spazi del museo ferroviario di Pietrarsa. E da oggi fino a domenica ci saranno tre giornate piene di eventi speciali: visite guidate, ricostruzioni storiche, balletti. E poi si potrà salire in carrozza per il «viaggio virtuale» della mitica Bayard, itinerario multimediale nella storia delle Ferrovie. La visita di Mattarella, però, rappresenta qualcosa di più che la semplice inaugurazione di un museo. Non molti sanno che Pietrarsa è considerata ancora oggi una «enclave» borbonica. Non a caso è l’unico luogo dove c’è ancora una statua commemorativa di un re delle Due Sicilie, se si esclude quella di Carlo III al Plebiscito, raffigurato però come monarca spagnolo.
La ragione è storica ovviamente e non è affatto legata alla campagna garibaldina del 1860. Ma a una strage operaia avvenuta tre anni dopo, il 6 agosto del 1863. Un episodio che la storiografia ufficiale ha riportato rarissime volte. Un eccidio che avvenne ben 23 anni prima dei «Martiri di Chicago» che poi diedero il via alle celebrazioni del Primo maggio.
L’episodio viene ricordato proprio in una lettera-appello, inviata dai neoborbonici al Capo dello Stato: «Da Presidente della Repubblica italiana, da Siciliano e da meridionale, può ricordare agli italiani (del Sud come del Nord) che quella che oggi è diventata un museo era la più grande fabbrica metalmeccanica d’Italia? Che, prima del 1860, occupava 1050 operai mentre l’Ansaldo a Genova ne occupava 480 e la Fiat a Torino non era ancora nata? Gli può ricordare che, proprio su quei massi di pietra lavica sui quali oggi Lei sta camminando, nell’estate del 1863 c’erano i cadaveri di almeno sette operai napoletani massacrati dai bersaglieri solo perché difendevano il loro lavoro? la invitiamo ad utilizzare Pietrarsa, caro Presidente: la faccia diventare, oggi, non un altro semplice e nuovo museo, ma il simbolo di un nuovo e vero patto “nazionale”: un patto in cui ci sia finalmente spazio per verità storiche per troppo tempo dimenticate o cancellate». ( Gennaro De Crescenzo)
Ma cosa accadde quel 6 agosto del 1863? Il governo Piemontese, per varie ragioni, decise di privatizzare le grandi industrie meridionali e affidò Pietrarsa a un certo Iacopo Bozza. Il quale abbassò subito la paga da 35 a 30 grana al giorno e licenziò la metà degli operai che all’epoca erano 850. Sui muri del Real opificio apparvero i primi manifesti di chiamata alla mobilitazione quando arrivarono segnali di altri sessanta licenziamenti: «Muovetevi, artefici, che questa società di ingannatori e di ladri con la sua astuzia vi porterà alla miseria».
Il 6 agosto gli operai iniziarono lo sciopero e si radunarono nel cortile della fabbrica. Il capo contabile, di origine svizzera, inviò subito un messaggio al delegato della polizia di Portici chiedendo l’invio di sei poliziotti perché temeva incidenti. Dopo mezz’ora inviò un altro, più allarmante, rapporto: «Non servono sei uomini, occorre un battaglione di truppa regolare». Basta consultare l’Archivio di Stato per sapere cosa accadde dopo. I bersaglieri circondarono l’opificio chiudendo dentro gli operai che continuavano a protestare. Poi si aprirono i cancelli e si decise di sgomberare il cortile. Fu una marcia alla baionetta, qualcuno tentò di resistere e i soldati aprirono il fuoco. Il primo rapporto delle forze dell’ordine parlò solo di due morti. Poi, ufficialmente, gli operai uccisi divennero quattro (ma si parlò, voce di popolo, di molti di più): Luigi Fabbricini, Aniello Marino, Domenico Del Grosso, Aniello Olivieri. Dieci i feriti. Sui giornali si parlò di «fatali e irresistibili circostanze», di «provocatori», di «mestatori borbonici».
La strage fu giustificata con il diritto all’ordine. Quel giorno morì anche Pietrarsa. Il 13 agosto, quando riaprì lo stabilimento, mancavano all’appello (su comunicazione dell’azienda) ben 216 operai su 450. Non tornarono mai più. La fabbrica sopravvisse in mani statali con una maestranza ridotta a meno di cento persone. Non raggiunse mai l’eccellenza degli anni fino al 1863 e divenne, alla fine, una officina per aggiustare carrozze. Chiuse nel 1975. Nel 2013 il comune di Portici decise di apporre una targa per i martiri di Pietrarsa nel 150° anniversario della strage. E un pezzo di storia tornò ad essere scoperto .
31 marzo 2017 | 10:46
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