Tu chiamala, se vuoi, speranza
Un romanzo su Napoli e la napoletanità, ma con un’anima che si compone altrove. Casalduni, Pontelandolfo, San Lupo, Castel Campagnano, Telese Terme. Le integranti di questo lavoro che ha voglia di presentare una visione diversa della nostra regione: più vicino l’entroterra campano e la città simbolo di tutto il Sud, Napoli.
Un riconoscimento della validità della cultura napoletana, ma anche la consapevolezza che occorre fare di più, affinché questo sapere sopravviva. E il pensiero corre al 1861, anno in cui cominciò a manifestarsi “l’esigenza”.
Ci troviamo nella Napoli degli anni ’80 e ’90: quella definita da alcuni osservatori la Napoli del riscatto, della riscossa. Ma è anche il periodo in cui la polemica sul napolicentrismo si rinfocola. Le aree interne della regione lamentano una penalizzazione da parte del governo regionale rispetto a quelle costiere. Napoli dovrebbe trarre giovamento da quest’andazzo? Manco per niente. Seppur qualcosa si muove, tutto poi ritorna negli schemi soliti.
“Napoli na” (il titolo è un inno a metà per la città) s’inserisce in questo clima. Più nascosta, nebulosa nella prima parte, “la necessità” diventa un impegno che non è più sollecitato, ma assunto in prima persona verso il finale, in cui la fantasia collima con il sì alla guida dell’associazione “Napoli na”. Va anche detto che la stesura del romanzo è volutamente semplice: non sempre traspare lo stile giornalistico, così come la vena poetica che lo anima. Una storia apparentemente un dejà vu dei film di Nanni Loy, ma anche una ripresa delle nelle autenticità quotidiane dei vicoli o delle strade più “in”. Una Napoli vera che racconta situazioni autentiche con leggerezza, sorridendo e lasciando sorridere, demandando al lettore possibili approfondimenti. La fantasia c’entra eccome, ma soltanto per avvalorare, per confermare, per dare il senso delle cose, una giusta dimensione. Sono gli anni di Massimo Troisi, Maradona, Pino Daniele e sono gli anni di Fabrizio, di Giorgio. I primi danno il meglio di se stessi, contribuendo chi con i film, chi con lo scudetto, chi con le canzoni, a quel rialzo di quotazioni per Napoli fino a quel momento ritenuto impossibile. I secondi crescono in un ambiente che non conoscono, si integrano fino a diventare estimatori di Napoli e della napoletanità, realizzano per esempio un network a dimostrazione che è possibile farlo anche in una città difficile. Eppure l’impegno a sostenere ancora per il tempo che verrà la cultura locale è sinonimo di un fallimento dell’attenzione dedicata o, in ogni caso, dell’uniformarsi di quanto costruito all’andazzo quotidiano? Così come accaduto per gli anni del riscatto etichettati, poi, una volta fallito l’obiettivo, come “gli anni dell’abbaglio”, ci si potrebbe riferire all’illusione. Ma c’è una leggera differenza che poi diventa sostanziale: l’illusione è una fiducia priva di certezze; il nostro sogno continua alimentato proprio da qualcosa anch’esso composto tra Casalduni, Pon- telandolfo, San Lupo, Castel Campagnano, Telese Terme. È l’irrazionalità… e, se vuoi, chiamala pure Speranza!
Antonio Vecchiarelli