Il dialetto attaccato da un processo irreversibile di inquinamento
E’ negli anni ‘60 del ‘900, quelli che seguirono il sisma del 1962, che molto rapidamente l’economia dei nostri paesi a vocazione agro-silvo-pastorale, viene investita dall’ondata del nuovo, del moderno, del consumismo. In pochi anni si distruggono oggetti, arnesi, strumenti di lavoro. In molti casi si abbandonano i nuclei originari dei paesi lasciati al decadimento del tempo che passa, si sgretolano le secolari tradizioni. Anche il dialetto che P. P. Pasolini vedeva come “l’ultima sopravvivenza di ciò che è ancora puro e incontaminato”, vacilla perdendo la sua originaria identità. Il bene culturale più prezioso di una comunità, da salvaguardare e tramandare ai posteri, è il dialetto, quella forma di comunicazione più efficace che ha accompagnato la storia di un popolo, i sentimenti, le passioni, le emozioni. Il dialetto porta con sé una cultura ricca di conoscenze e di esperienze incancellabili. Perderne l’uso significa perdere quel bagaglio culturale tradizionale sul quale è stata costruita la straordinaria storia di oltre ottomila paesi italiani. Il dialetto di Pontelandolfo affonda le sue radici nell’antichità nelle sue derivazioni dirette dall’osco, dal greco, dal latino, dal longobardo, dal francese, dallo spagnolo e per questo suo non appartenere a nessuno specifico gruppo linguistico, è unico nell’area sannita e singolare è la varietà della pronuncia delle voci dialettali da contrada a contrada. Purtroppo nell’odierna società liberal capitalista, che nel suo processo di crescita economica e tecnologica ha definitivamente deciso di non affidarsi più al contributo del patrimonio culturale, anche il dialetto pontelandolfese sta cambiando pelle. Parola arcane, pure, dalla pronuncia originale, stanno perdendo quella carica interiore che le caratterizzano. Esse non appartengono più al linguaggio indigeno, sono state attaccate da un processo irreversibile di inquinamento, di modernizzazione, di sopraffazione di nuove parole che le porterà a diventare un giorno frammenti di lingua marciti. Peccato!
Gabriele Palladino