Domenico Iannantuoni- Il ponte sul Garigliano

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PREFAZIONE

Recitano così antiche cronache:
Il 20 maggio 1828 quando furono iniziati i lavori del ponte di ferro sul Garigliano un giornale inglese, The Illustrated London News, espresse perplessità sulle capacità progettuali e costruttive dei napolitani e le sue vive preoccupazioni sulla sorte dei poveri sudditi, vittime di questo vano esperimento da sprovveduti, dettato solo dalla voglia di primeggiare.

Ci si potrebbe chiedere, oggi, cosa c’entrasse l’Inghilterra con gli affari interni del Regno delle Due Sicilie, ma la risposta è scontata visto che già da qualche secolo tutto il Mediterraneo stava sotto la lente di ingrandimento dell’imperialismo della “perfida Albione”.
E’ noto che l’interesse economico ha sempre prevalso in tutta la filosofia di vita degli inglesi e chi ad esso si è opposto è sepre stato destinato a subirne dovuta conseguenza.

Peraltro a quel tempo i ponti sospesi in ferro ponevano per la prima volta, all’attenzione del mondo accademico, il cosiddetto problema della “stabilità” alle composte sollecitazioni dovute ai carichi dinamici e termici, oltre a quelli statici che lo studente di ingegneria apprende, oggi come ieri, nei corsi di Scienza e Tecnica delle Costruzioni, rigorosamente affrontati dopo una buona preparazione in Analisi Matematica e Meccanica Razionale.

Grande fu l’attesa straniera per il preannunciato fiasco con ponte destinato a bagnarsi nelle acque del Garigliano, ma tutto andò a rovescio.

L’impresa, voluta da Francesco I, fu dal giovane figlio Ferdinando divenuto Re delle Due Sicilie, portata a termine, in scacco a tutte le cornacchie dell’universo politico di allora, ma sotto l’occhio vigile e compiaciuto dei molti scienziati onesti dell’epoca.

Certo, la figura scientifica e professionale dell’ingegnere meridionale, a partire dalla sua formazione istituzionalizzata all’interno della Scuola di Applicazione di Ponti e Strade (1811), passando per la significativa esperienza della Scuola Politecnica (1811-1814), mantenendo proficui rapporti con il mondo accademico di “modello francese”, e consolidando la sua attività d’ingegneria applicata con quella all’interno del Corpo degli ingegneri del Regno, era, a quel tempo, nonostante le chiacchiere inglesi, di tale sicurezza professionale che la mediterranea eccellenza del sapere scientifico e dell’arte costruttoria era un dato certo; comunque mai messo in discussione fino allora.

Sul ponte di ferro sul Garigliano, poi, non mi sembra, a tutt’oggi, esistano pubblicazioni che abbiano approfondito in modo esaustivo gli aspetti tecnico-funzionali. Qualche studio di sapore universitario, edito all’interno delle Facoltà Scientifiche napoletane potrà anche esistere, e certamente esiste perché ne vidi una diversi anni fa, mai più, da me, ritrovata, molto superficialmente legata a quel contesto pseudoscientifico che richiede all’Autore “lavori” da pubblicare per poter formare curriculum ad usum concorso interno; comunque uno scritto privo di quella capacità introspettiva in grado di inserire un “progetto datato” all’interno della problematica scientifica e costruttiva

Domenico Iannantuoni, invece, con serietà e quel briciolo di spregiudicadezza che gli deriva dal non praticare la via dell’academismo ma quella di una professione vissuta in toto, si è calato completamente nel personaggio di Luigi Giura, l’ingegnere che progettò e costruì il ponte, a mò di moderna reincarnazione spirituale; quindi inseguendo in una successione scandita lentamente, una quantità di ipotesi ricostruttive sul progetto strutturale originario dell’opera. Un’opera magnifica sotto l’aspetto architettonico ma totalmente stravolta, a suon di molti milioni di euro di provenienza europea, da quella insensata ed indecente ristrutturazione, promossa recentemente da un noto Ente di Stato delegato a tale bisogna.

Parlavamo prima di un Luigi Giura che “detta” e di un Domenico lannantuoni che “annota” come in un rosario dolente, passandosi tra le dita ogni sgarbo restaurativo che emerge; lavoro di letale distruzione fatto da chi non è stato in grado di interpretare e di focalizzare la molteplicità delle innovazioni tecniche, messe in atto, in itinere d’opera. Una sequenza di “accorgimenti dovuti” che singolarmente determinavano la sicura forza tecnologica d’assieme.

Da questa analisi minuziosa, alla luce dei numerosi altri progetti simili nell’Europa post napoleonica, spunta, come un coniglio dal cappello di un prestigiatore, la originale invenzione del doppio pendolo di Giura; un particolarissimo marchingegno, inserito verticalmente nel pilone come se fosse “cucchiaio capovolto”, cui ancorare le catenarie in gioco e in cui l’operazione teorico-pratica d’obbligo risulta la ricerca di quel particolare spostamento “dx”, capace di alterare l’inclinazione dell’asse di pendolo rispetto all’asse del pilone in maniera da scaricare la forza peso risultante facendola cadere nel centro della base in modo perfettamente verticale, a creare una reazione equilibrante frutto del solo terrazzo d’appoggio.

Potremmo indicare quel piccolo “dx” con la dicitura “equivalente verticalizzante” alla maniera de “l’equivalente in acqua” usato nella teoria del calorimetro ad acqua. Si tratta del classico aggiustamento in itinere; un equivalente di simmetria che Giura utilizza senza precisa formalizzazione e che Iannantuoni riporta in vita calandosi nel progetto originario quasi esotericamente.

Questa capacità di Luigi Giura, che lavorando sul campo da parecchi anni, evidentemente non aveva dimenticato i modelli dell’analisi strutturale, fa parte dell’indiscusso bagaglio che gli proviene dal DNA della scuola scientifica napoletana; scuola che sopravvisse nonostante la decisa discontinuità tra Regno Duo Siciliano e Regno Italiano, e che sarà in grado di produrre intelligenze assolute nel campo della Matematica Pura ed Applicativa, come Giovanni Battaglini (1826-1894), Ernesto Cesaro (1859-1906), Ernesto Pascal (1865-1940), Renato Caccioppoli (1904-1959) tutti scienziati napoletani di fama mondiale, cui mi piace qui aggiungere uno tra i tantissimi famosi ingegneri meridionali, il più noto, l’ing. Nicola Romeo, fondatore della famosissima “Alfa Romeo”.

Per finire, e non parlo d’altro perché il libro contiene una sorpresa dopo l’altra che deve rimaner, ognuna, sorpresa, sono interessanti poi i vari significati esoterici che Domenico Iannantuoni riscopre sui simboli e sui disegni posti sui capitelli in stile egizio.
Non stiamo qui a tirarla per le lunghe, visto che il Lettore potrà riflettere su tutte le considerazioni del “reincarnato” Domenico.

Certo il sapere che l’Ingegner Giura Luigi potesse anche avere avuto simpatie massoniche, senza essere per questo un garibaldino, ce lo rende anche più interessante come figura umana; un “massone borbonico” di classe, onesto, intransigente e amante della sua patria napoletana, come le sue ultimissime vicende politiche, a contatto con gli Italiani, hanno dimostrato ampiamente.

Luigi Cerritelli,
già Segretario Nazionale della MATHESIS
Società Italiana di Scienze Matematiche e Fisiche Fondata nel 1895,
docente di Matematica e Fisica


PRESENTAZIONE

Ho seguito il collega ingegnere Domenico lannantuoni in questa sua intrapresa fin dall’inizio, quando lo ascoltavo, non troppo attento sulle prime, parlare di un certo ingegner Luigi Giura, tecnico borbonico del regno delle Due Sicilie. Il tono con il quale mi riferiva delle sue ricerche, da principio un po’ vago, ha via via assunto gli accenti entusiastici e coinvolgenti che caratterizzano il suo linguaggio quando racconta le sue investigazioni sulla storia duosiciliana.

Per me, che ho faticosamente studiato una storia del Risorgimento italiano dettata dai canoni politici del dopoguerra, appena tinta dagli sprazzi europeistici del pensiero socialdemocratico mitteleuropeo del mio professore di scuola pubblica, era un modo quasi nuovo, già vagamente intuito nelle mia formazione culturale, ma mai adeguatamente approfondito e metabolizzato, di sentirmi italiano, italiano del sud.

Ho quindi affrontato con curiosità crescente la lettura del testo e, confesso, mi si è aperto un mondo nuovo e un modo altrettanto nuovo di affrontare criticamente la storia pre e post risorgimentale del mio paese.
Inevitabilmente poi sono stato catturato dalla parte ingegneristica, là dove si parla di pendoli e catenarie, cuore semantico dell’opera.

Dallo studio delle tensioni d’estremità delle catenarie di ritenuta e di sospensione dei ponti sospesi, aventi diverso angolo sull’orizzontale, e studiandone le massime escursioni provocate dalla dilatazione termica delle catene, il Giura escogita un doppio pendolo, imperniato in cima alle colonne di profilo egizio,
che risolve il problema statico del ribaltamento nel contenere le risultanti nel terzo medio del rocco di base.

Qualcuno ha sostenuto che è stato copiato il ponte “des Invalides” del Navier, anch’esso progettato con colonne di tipo egizio, ma mai portato a termine, a causa del cedimento delle fondazioni, già in fase di realizzazione; ma non è così, soprattutto per la sostanziale differenza degli apparecchi di sospensione. Il Navier sembra infatti aver adottato un carrello scorrevole su un binario di profilo tangente alle catenarie, senza poter pertanto ridurre la componente orizzontale e contenere la risultante in zona di sicurezza.

Il ponte sul Garigliano ha inoltre un’altra garanzia contro il ribaltamento delle torri: i tirafondo che fissano alla sommità le piastre portanti degli apparecchi di ritenuta, si prolungano in fondazione, oltre il rocco di base; sicché il serraggio dei bulloni in cima alle aste conferisce al sistema di pietra una sorta di precompressione, probabilmente fuori calcolo, data l’impossibilità all’epoca di ottenere la tensione desiderata per mezzo di chiavi dinamometriche.
L’opera di Giura, insomma, sfida il tempo e, oltre il razionalismo della statica, concede spazi all’immagine e al gusto estetico con simbolismi, dai numeri alle sfingi poste ai lati degli accessi al ponte, ai capitelli istoriati con bassorilievi stilizzati, ancora di marca egizia.

Si doveva infine giungere ai nostri giorni per banalizzare e rendere inutile tutta la teoria delle sospensioni e delle catenarie fin qui esposta, per arrenderci di fronte alla trave continua, alta 120 cm, che sorregge attualmente l’impalcato, forse con una qualche partecipazione dei tiranti originali.
Come dire che il ponte, che aveva fieramente sostenuto le ingiurie del tempo, ha dovuto cedere all’ingiuria dell’ANAS esecutrice delle opere di restauro.
II ripristino delle strutture e dell’architettura originale è forse la nuova battaglia che con questo libro si profila all’orizzonte?

Tutto questo è descritto con dovizia di particolari nel libro, insieme con le notizie storiche e sociologiche del Regno delle Due Sicilie e della dinastia borbonica.

Renato Guida,
già dirigente del CONI, ingegnere in Roma


INTRODUZIONE

” Un ponte può essere qualcosa di più di un semplice traliccio utilizzato per scavalcare fiumi e bracci di mare”.

E’ proprio vero, Domenico lannantuoni questo lo ha capito e non è certo il “caso” ad avergli ispirato questo lavoro.

Egli ha voluto offrirci un’opportunità, quella di scoprire un uomo, l’ingegner Luigi Giura e, attraverso la sua opera prestigiosa nel contesto dell’epoca, il suo talento incontestabile pur non riconosciuto.

Ma il libro è anche un invito a porci alcune domande.

La storia dell’ing. Giura è anche storia emblematica del Sud e si riallaccia ad un discorso più ampio che va a toccare dei “punti dolenti”. Quegli stessi che hanno determinato in questi anni l’impegno del mio amico Domenico perché venisse fatta una rilettura di alcuni capitoli della storia del nostro paese, e così ridare al Sud quella grandezza del suo passato, che farà da ” Ponte”, l’unico vero, indispensabile, per proiettarsi nel futuro.

Ringrazio Domenico lannantuoni per l’estrema serietà e l’entusiasmo, due caratteristiche che definiscono la sua personalità, con le quali continua a ripercorrere quelle strade del nostro Sud, spesso volutamente lasciate nella penombra.

Questo libro si propone di riaccendere alcune luci che, ci auspichiamo, possano guidare nel loro cammino verso il futuro tutti quei giovani del Sud, dando loro il sentimento di appartenenza ad una Terra che fu gloriosa e che può esserlo ancora grazie a “loro” e cancellare quel che Iannantuoni definisce ” delitto morale”, ossia la negazione della grandezza di un passato.
Negare il passato è invalidare il futuro. Un uomo senza passato o con un passato “distorto” si ritrova ad ascoltare una musica distorta che gli restituisce solo vagamente la melodia. Un uomo con radici fragili non può attingere a tutte quelle risorse della memoria che lo faranno sentire forte, all’altezza, e competitivo nel mondo odierno. Gli mancherà sempre quel nesso o meglio quei riferimenti insostituibili.

” Il meraviglioso Ponte sul Garigliano” è solo un pretesto poichè:

” Un Ponte può anche diventare il collegamento tra il passato ed il presente e tra questo ed il futuro”, Domenico lannantuoni dixit.

Ti sono grato per questo.

Silvestre Mistretta,
già Comandante VVF ingegnere in Milano

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