Garibaldi-La marchesa Raimondi , Un amore tragico.

RICERCA EFFETTUATA SU “GOOGLE LIBRI” DAL LIBRO “GARIBALDI E LE DONNE” di Giacomo Emilio Curatotolo -Roma -1913

PAG.293 a 313

COPERTINA

La marchesa Giuseppina Raimondi

Un amore tragico.

Nella bramosia di riaccendere incresciose discussioni mi spinge a parlare di un dramma, che in sul finire del ’59 e i principi del 1860 ebbe svolgimento in una amena villa, specchiantesi sulle acque del lago di Como, a Fino.
In un libro come questo, non potevo esimermi dal parlare di una figura di donna la quale, a differenza di tutte le altre, il destino volle che dovesse essere causa di umiliazioni e dolori nella vita di Garibaldi. Non lo potevo, perchè la storia ha i suoi diritti, e quel dramma allora commosse il cuore di tutti, al di qua e al di là delle Alpi; non lo dovevo, perchè la verità si deve pur dire, anche per rispetto alla canizie di una donna, che nel silenzio di più che cinquant’anni ha duramente espiato e sofferto!

giuseppina raimondi
Lascio agli altri la veste di inquisitore; io, giudicando alla stregua dei sentimenti umani, domando a tutti coloro che hanno parlato intorno al doloroso episodio di Fino, che fu un dramma profondamente psicologico e politico, se essi abbiano avuto in mano tutti gli elementi per sentenziare, cosi come hanno fatto; se l’universale sentimento di simpatia e il fascino che la figura di Garibaldi sempre destarono nell’anima nostra, non abbiano fatto si, che nel giudizio la passione annebbiasse la mente e che ingiustamente venissero negate a colei che fu l’attrice prima del dramma, quelle attenuanti, le quali pur si concedono a chi ha peccato.

Ebbene, intorno a quel dramma sono oggi in grado di gettare un fascio di luce, più che con la mia parola con quella stessa del Generale.
In una minuta autografa delle “Memorie” di Garibaldi ch’io posseggo, scritta quasi di primo getto, cosi come l’anima gli dettava dentro, sono alcuni brani che non si trovano nell’altro autografo delle “Memorie”, pubblicate nel 1872 dal Barbera, nè nell’edizione posteriore, cosi detta e “diplomatica”, del Nathan. In queste “Memorie” inedite è un lungo brano, che viene a diradare il mistero.
Ma anzitutto giova ricordare come e dove Garibaldi s’incontrò con la Giuseppina Raimondi.

***
Il 1° di giugno del ’59, fallito il tentativo notturno contro i forti austriaci di Laveno, il Generale tornava verso Varese, sostando a Robarello. Qui, dopo aver mangiato del pane, che portava in una sacchetta; si addormentò, sdraiato sul suo mantello americano, all’ombra di un albero; accanto aveva la sciabola e la carta topografica. Un raggio di sole, attraversando i rami cadeva sulla fronte del dormiente, il cui risveglio doveva segnare l’inizio di un amore tragico.

Il riposo fu breve; poi,raccolte notizie sul nemico, l’eroe si mise in marcia per la strada di Sant’Ambrogio. Lo seguiva un ufficiale del suo Stato Maggiore e più lungi, ilnucleo della brigata. A un certo punto, l’ufficiale vide venire da lontano un calesse con una donna e un prete, e rivoltosi al Generale, gli dice: Oh! che belli esploratori ci manda il nemico ! Giunta la vettura da presso,ne scese una bellissima giovine, la quale dopo avere parlato segretamente con Garibadi, si avviò con lui all’osteria di Robarello. Qui il Generale scrisse una lettera, affidandola alla giovane, che congedò con queste parole, che risuonarono nel silenzio della campagna solitaria: “Dite che stiano fermi e che resistano fino a domani. Occupino intanto i monti e Camerlata ; domani sera sarò a Como coi miei Cacciatori delle Alpi ! ». La lettera che Garibaldi aveva consegnata alla giovane era diretta al Visconti-Venosta, Commissario regio in Como; in essa si diceva:
Robarello, I° giugnc 1859. Signor Visconti, Sono di fronte al nemico, a Varese; penso di attaccarlo questa sera. Mandate i paurosi e le famiglie fuori della città; ma la popolazione virile, sostenuta dal nostro Camozzi, le due compagnie, i volontari e le campane a storno procurino di fare ogni possibile resistenza ».
La giovane diciottenne, che nella sua balda bellezza, passando attraverso le sentinelle austriache, in quel mattino aveva portato a Garibaldi il messaggio dei comensi terrorizzati dal pericolo di un saccheggio, era la marchesa Giuseppina Raimondi, di Como. L’accompagnava ilsacerdote Don Luigi Giudici, coadiutore della pieve di Socco, « un umile che fu tra i più volenterosi lavoratori e dei più coraggiosi, nell’ora della preparazione eroica, fratello di quel Giudici, generale medico, che per molti anni rappresentò la città di Como al Parlamento nazionale ».
Giuseppina aveva passato la sua fanciullezza in un ambiente di cospirazioni mazziniane. Giovinetta, segui il padre, il marchese Giorgio, nel Canton Ticino, dove erasi rifugiato per sottnusi alla vigilanza della polizia austriaca. Ma dalla Mezzana, la bellissima villa che Maria Cristina, memore di antichi servigi, aveva messa a disposizione del profugo, la strada non era lunga per arrivare al confine lombardo; e nel tiro a quttro, che nelle sue gite la bella giovinetta arditamente conduceva oltre la linea delle sentinelle austriache, i doppi fondi della vettura nascondevano ora fogli di proclami rivoluzionari, stampati a Capolago, ora fasci di fucili”
Fu appunto la mattina del 1°giugno del’59, che la Giuseppina, scesa a Como dalla Mezzana, era apparsa alla popolazione terrorizzata come un angelo tutelare ! Ella porterà a Garibaldi il mESsaggio della sua città e ne riporterà la risposta, che farà nascere nell’anima il coraggio e la speranza.
E certo, angelo tutelare ella fu in quel dì, ma non per lei; poichè, con quell’atto di nobile patriottismo, inconsciamente scrivea la prima pagina di un dramma, del quale doveva essere la protagonista. Angelo tutelare, si; ma non per l’eroe, che in quell’incontro mtrovò la fonte di una serie di dolori, che ebbero termine venti anni dopo !
Garibaldi, nelle “Memorie” già pubblicate, scrisse: Chi mi aveva informato di tutto (Allude alle condizioni, in cui ai trovava la dttà di Como.) era stata una co-
raggiosa e avvenente fanciulla, che mi comparve in legno sulla strada di Robarello a Varese come una visione, mentre io marciavo con la brigata su quella città per attaccarvi Urban. Quella bella fanciulla era partita da Como per annunciarmi lo stato deplorabile, in cui la città si trovava e sollecitare quindi il mio ritorno.

Non una parola amara egli ha, non un accenno sull’episodio che seguì l’incontro fatale !
Che cosa significa questo silenzio del Generale ? Generosità, magnanima cavalleria per la donna, che poi lo avrebbe umiliato o non piuttosto il convincimento, nella sua anima diritta, che nella fanciulla colpa non era ?
Or bene, la verità si è che Giuseppina Raimondi non amò mai Garibaldi e che persino lo respinse; essa fu obbligata al matrimonio, che seguì, dal padre, il quale sentiva per il Generale una vera infatuazione, e da altre circostanze che nella disamina di questo dramma non furono serenamente vagliate. Il brano inedito delle
“Memorie” prova la ripulsa di lei per Garibaldi, che erasene pazzamente innamorato fin da quando essa gli era apparsa « come una visione » sul campo di battaglia, e forse in un momento in cui il cuore dell’eroe, amareggiato dal rifiuto di una altra donna amata (la Speranza Schwartz) sentiva il bisogno di un amore ideale.

Giuseppina Raimondi aveva dato il suo cuore ad un giovane, che essa liberamente si era scelto, Luigi Caroti; un brillante ufficiale dell’esercito regolare e non delle fila garibaldine, come affermarono coloro i quali parve si divertissero financo ad alterare le tinte del dramma per renderlo più fosco. E il dramma in verità, non avrebbe avuto luogo, se il terzo personaggio, forse il vero colpevole, del cui affetto la giovane sentivasi sicura, al momento decisivo, non fosse venuto meno alla promessa e non l’avvesse abbandonata!
E’ questo il punto culminante del doloroso episodio di Fino; poi che giova notare, e il brano inedito del Generale lo attesta, fu soltanto quattro mesi dopo l’in­ contro con la Giuseppina, quattro mesi dopo che egli le aveva fatto dichiarazione di amore ed essa lo aveva respinto, che la Raimondi scrive al Gençrale e gli dice di farla sua!
Quale tempesta non si dovette agitare nel cuore della giovine patrizia che, rimasta fedele al suo Caroli, resistendo a tutte le vanità e lusinghe della profferta d’a­ more di un uomo come Garibaldi; abbandonata poi d’un tratto dall’uomo del suo cuore, in preda allo sconforto per la disillusione sofferta, incalzata dall’autorità paterna e sotto l’imperio di uno di quegli stati psichici che, senza ricorrere ad accuse che ripugnano, spiegano molte cose, decide affine della sua sorte e scrive all’uomo che non ama, ma dal quale sa di essere amata, di farla sua?

***
Quando, or è qualche anno, il nome della marchesa Raimondi corse ancora una volta su tutte le gazzette d’Italia e si volle tornare a frugare nell’anima della settantenne signora, la voce della penombra parlò.
“Si è affermato, ella disse,che io avrei dovuto opporre il mio rifiuto fino all’estremo; ma,se in quei tempi una ragazza di diciotto anni era lasciata già abbastanza libera da potere correre da Como a Varese in giornate poco calme, e le si permettesse anche di scegliersi un innamorato, la scelta del marito però se la riserbavano ancora, e quanto gelosamente, i genitori ! D’altronde, come domandare tanto coraggio ad una ragazza che tutti abbandonavano? Persino il Caroli, c’he era sicuro del mio affetto, al momento decisivo mi lasciò sola !”
L’accusa che la Giuseppina si fosse valsa dell’affetto di Garibaldi per tentare di ottenere il nulla osta per il passaggio di una merce di… contrabbando, accusa che avrebbe fatto della giovine patrizia una delle donne le più miserevoli, naufragò in tribunale. Cosi pure è leggenda, la confessione, che essa avrebbe fatto ai piedi del Generale, il di delle nozze “disperatamente abbrancata alle di lui ginocchia” e che la baronessa Olimpia Savio di Brnstiel raccolse nel suo Diario come una delle tante fantastiche voci, che allora corsero per la bocca di molti.

***
Le nozze furono celebrate il 24 gennaio del 1860, col rito religioso (secondo le leggi austriache), nell’oratorio domestico dei marchesi Raimondi nella villa di Fino. Presenziarono come testimoni allo sposalizio il governatore di Como, Lorenzo Valerio e il conte Giulio Porro Lambertenghi. Appena usciti dalla chiesa, secondo alcuni, un ignoto mise nelle mani di Garibaldi un foglio. Secondo altri questo foglio fu trovato da Garibaldi nella stanza nuziale. In esso si denunziava che la Giuseppina amava un altro uomo. Il Generale chiede alla Giuseppina se ciò fosse vero ; essa confessa, ma non si giustifica; sebbene le sue relazioni col Caroli, contrariamente a quanto da alcuno si volle in seguito affermare, non fossero di tale natura da toglierle ogni posbilità di giustificazione.
Ora che la scena drammatica sia stata il risultato di una congiura non è da dubitare ! Chi non sapeva che Garibaldi doveva sposare la Giuseppina ? E se un’anima ooesta avesse voluto impedire quel matrimonio perchè indegno dell’eroe, non ci sarebbe stato tutto il temp per farlo, senza aspettare che si arrivasse al passo fatale ?
Nessuno ignorava che Garibaldi viveva nel palazzo Raimondi, fin dalla metà del dicembre. Il 13 di quel mese, stando a letto, ammalato per una ferita al ginocchio, aveva ricevuto la rappresentanza della Guardia Nazionale di Como e in quell’occasione aveva pronunziato un discorso vibrante di patriottismo; qualche giorno dopo si ebbe gli omaggi della Guardia Nazionale di Milano, nei primi di gennaio una visita di Alessandro Dumas e il giorno 14, nel massimo teatro di Como era stato cantato, in onore del vincitore di San Fermo, un coro musicato da certo Filibert, su versi del garibaldino Bartolomeo Gatti, da Fossano. Chi non sapeva in quei giorni, che il matrimonio era deciso? Perfino il e Corriere del Lario il 6 gennaio, lo annunciava con queste parole: e Siamo in grado di potere assicurare, che la famiglia della fidanzata del generale Garibaldi ha preso tutte le disposizioni, affinchè il matrimonio segua quanto prima ilGenerale trovasi a Fino, presso il padre della sposa ».
L’episodio di Fino fu un dramma politico! Il matrimonio di Garibaldi aveva suscitato in molti dei suoi amici un’opposizione violentissima. Da un lato erano coloro i quali pensavano a realizzare l’impresa di Sicilia e temevano che le dolcezze della vita coniugale potessero distrarre l’eroe dalla sua nobile missione(Garibaldi stesso aeva ripetutamente affermato che, stanco di una vita cosi avventurosa, intndeva passare il resto degli anni nella pace domestica); dall’altro vi erano coloro, e non erano pochi, che sfruttavano sistematicamente la generosità di Garibaldi e che dovevano temere che,coll’avvento di una donna come la Giuseppina, l’epoca della loro condotta indiscreta sarebbe finita.
“Qual meraviglia, disse or è qualche anno, la voce della penombra, che tali interessi si siano coalizzati contro la fanciulla, che involontariamente li rovinava, e sieno stati pronti a torla di mezzo, sfruttando abilmente quel pochissimo che vi era di vero nel cumulo dei pettegolezzi, che non manca mai di formarsi a carico di una donna, giovane, ricca, non brutta e non ipocrita? Il colpo di scena della rivelazione fu architettato per spingere il Generale verso lo scandalo, verso l’irreparabile. Fate che la rivelazione fosse arrivata qualche ora prima del matrimonio e l’accusata avrebbe avuto agio di giustificarsi. Quanto alla mia rassegnazione, le mie energie morali erano decimate dalla mia debolezza fisica di convalescente per il tifo avuto, ed ancora dalle emozioni di quegli ultimi giorni. E per di più, non si ha bisogno di una psicologia molto sottile per porre l’altra possibilità : la dignità della fanciulla innocente, offesa a sangue dalla calunnia infame, che si ribella e sdegna di scendere, in una notte che doveva essere sacra alle emozioni più grandiose, alla demoralizzante bisogna di un’autodifesa !
Ed havvi un’altra possibilità da trascurare anche meno, poichè si tratta di psicologia femminile: io non amavo quell’uomo, e quell’uomo, nella sera del di delle nozze veniva precisamente a dirmi in sostanza:
“Non abbiate paura, non vi prenderò “. Sommate tutte queste possibilità, riportatevi a quell’ambiente così complicato d’intrighi, cosi torbido d’interessi, e non parrà inverosimile il caso, che il buon nome e la felicità di una donna siano stati insidiati e sacrificati mediante la più raffinata delle macchinazioni … la prova materiale della quale esiste nei documenti che posseggo e che non pubblicherò, non fosse che pel rispetto che ho verso certe memorie, grandiose quand meme.
Ed io sono di una schiatta di patrioti che non hanno mai contato, quando si trattava del servizio della patria, nè la perdita degli averi, nè il rischio della vita. Anche a me toccò di sacrificare per quello stesso ideale tutto ciò che la donna ha di più caro e di più prezioso. Ho creduto doverlo fare in silenzio, e in silenzio l’ho fatto per cinquant’anni.
Mi si lasci continuare in pace, per quel poco spazio di vita che mi resta ancora”

*****
Ecco ora, senz’altro, il brano inedito delle “Memorie” del Generale; documento interessantissimo per la psicologia dell’eroe, il quale, malgrado i suoi 52 anni, (chè tanti ne aveva allora) mostra tutto il fuoco della sua natura, l’anima sempre giovanile, indifesa agli attacchi delle ardenti passioni amorose ! Ascoltiamo.

“Verso il 3 dicembre del’59, essendo a Sestri, io ricevetti dalla bella fanciulla, Giuseppina Raimondi, una lettera in data del 28 novembre, che aprì una nuova fase alla mia esistenza.
Io, già dissi, ero stato colpito, come se da visione, al primo aspetto di quella cara creatura, e l’immagine sua s’era scolpita nel mio cuore in caratteri indelebili, nel giorno in cui ella mi apparve in legno leggiero e sè stessa conduttrice, accompagnata da un sacerdote, amico di casa sua.
Io non avevo potuto dissimulare, nelle poche visite all’amena villa dell’Olmo, l’interesse che lei m’ispirava; e nel solo momento favorevole per una manifestazione, incontrato all’albergo dell’Angelo, nel porto di Como sulla sponda del Lago, inginocchiato, io avevo baciato quella bella mano ed avevo escalmato : “Oh, voglio appartenervi in qualunque modo !”
Quelle parole mi sembrarono non avere ottenuto la mèta, e quasi disperai di avere ispirato ciocchè io sentivo nel mio cuore.
In un’altra circostanza, invitato dal marchese Raimondi, suo padre, ad una pesca notturna sul Lago, io m’ero lusingato di passare una notte felice sotto lo stetto della donna dell’anima mia; ma mi sembrò tale risoluzione non essere del piacimento della bella fanciulla. Ciò mi afflisse; e forte di quell’amor proprio e di quella dignità d’uomo, che non mi mancò giammai in tali circostanze, io decisi di dimenticare quell’angelo !
“Trovavasi in Como il Reggimento degli Appennini, imbarcantesi per la Valtellina. Io profittai di uno dei vapori, che trasportavano la truppa, per recarmi verso quella direzione e raggiungere la brigata, che avevo lasciato temporaneamente. Il marchese Raimondi, che in ogni circostanza mi aveva mostrato squisita amicizia, era venuto a congedarsi da me sul molo, accompagnato dalle vezzose sue figlie. Lì era Giuseppina, più incantevole che mai ! Io la guardavo furtivamente dal vapore, dopo di essermi congedato da loro; ma in me stesso avevo deciso di dimenticare una donna che non aveva nessuna o poca apparenza di corrispondere alla fiamma, che mi aveva destato.
Io soffrivo d’indescrivibile pena, ma ero forte: poi mi consolavo che l’età dispari era l’ostacolo che mi privava di quell’affetto cosi prezioso.
Il vapore si allontanò infine, ed io credetti di dovere sforzarmi per dimenticare la bella figlia del Lago.

Passarono vari mesi. La guerra prima, ma più gl’intrighi dei miei nemici mi avevano occupato molto. Nell’Italia Centrale per affaccendato ch’io fossi, per quanto disgustato da tante contrarietà, suscitatemi più che dai nemici d’talia, dai paurosi dottrinari, e gettato ancora in una certa malinconia, cui fui propenso in ogni periodo della mia vita, non mancavo di volgere il pensiero alla bella ragazza, che mi aveva innamorato sulle sponde del Lago di Como.
“A Bologna vidi il Marchese un momento e le notizie della Giuseppina per me erano sempre un balsamo. Però, in mezzo alla idealità del mio affetto non vi era speranza fondata, Io non avevo da lei prove che potessero persuadermi di essere amato, e cosi me la passavo, ricordandomi dell’incantevole fanciulla, siccomedi un sogno felice della mia vita.
Mentre ero a Sestri, nel ritiro del signor Gastaldi, io ricevetti una lettera da lei, ov’essa mi diceva d’amarmi e che la facessi mia !
Io fui felicissimo a tale annunzio e non perdetti un momento per recarmi a Fino, ov’ella si trovava colla famiglia. Lasciai Sestri col mio amico Deiderj e giunsi a Fino nella mattina seguente.
Dopo un piccolo colloquio con lei e con suo padre, io scrissi ad essa, dipingendo esattamente la mia situazione: la mia età, la povertà mia, i legami che mi vincolavano ad altre donne, ed infine il mio naturale malinconico, non adeguato a giovine donna. Essa mi rispose di avere ponderato ogni cosa ed essere risoluta a quanto mi aveva manifestato. Allora io mi abandonai interamente alla mia felicità, e dimenticai, accanto alla cara donna del mio cuore, tutte le miserie d’una vita fastidiosa !
Un incidente, che poco mancò non divenisse fatale, mi successe dopo pochi giorni del mio arrivo a Fino. Cavalcando accanto alla bella fanciulla, forte, graziosa a cavallo come un’amazzone, il mio cavallo mi prese la mano e non fui più capace di fermarlo. Non conoscendo l’animale, seguitai per un pezzo la via diritta; avendo percorso cosi alcune miglia, lo obliquai a sinistra in un viale perpendicolare alla strada, alla fine della quale vedevo una casa, con la speranza di fermarlo, una volta arrivato a quella. Inutile fu il mio conato; perchè giunto alla casa mi accorsi che l’animale aveva poca voglia di fermarsi. Allora lo obliquai a sinistra: ma in quel movimento diedi la gamba contro il muro e mi fratturai la rotella del ginocchio destro.

Era ora di messa:tutta la gente di casa era andata in chiesa. Una donna che si trovava presente, si spaventò talmente che corse, gridando, a nascondersi e non la vidi più. Il cavallo non si fermò, se non dopo avere colpito da furibondo tutto quanto incontrava davanti. Feci alto finalmente in una stalla, dalla cui porta eravamo passati ambidue come per miracolo.
Uscito dalla stalla ripresi il viale, e vidi all’estremità di questo la Giuseppina, che mi aspettava in carrozza col resto della comitiva, composta dalle due sorelle, da Deidery etc… Io, mortificato, di non aver potuto padroneggiare il cavallo e credendolo stanco dalla corsa fatta, lo rimisi al galoppo: ma il focoso animale riprese il morso ai denti e di bel nuovo mi fu impossibile di arrestarlo. Giunsi dunque, a tutta carriera sul crocicchio di strada, ove m’aspettava la comitiva, e il primo urto lo diedi contro il timone della vettura, non avendo potuto obliquare abbastanza il cavallo per scansarla; poi vedendo davanti ame, prima un banco di pietre e dopo questo un cerchio di pioppi chiuso cosi, da non poter passare framezzo agli alberi, mi risolvetti di saltare da cavallo, ciò che feci più felicemente assai, che non dovevo sperare perchè saltai in piedi e non fui rovesciato dallo slancio; benchè avessi il ginocchio fracassato e altre parti contuse. Io fui superho del mio salto davanti ai compagni, e sopra tutto, alla vista di colei, che era divenuta il mio tutto !
Tanta fu la mia superbia alla cavalJeresca mia discesa da cavallo, di cui (lo confesso) non mi sarei creduto capace, che mi accingevo a rimontate ancora, quando il giovine Giorgio, fratello della fidanzata mia, s’interpose e non volle, chiedendomi di prendere posto nella vettura.

Io ero alquanto addolorato e meglio fu per me la vettura del cavallo. Tornammo immediatamente a casa, dove stetti diciotto giorni in letto per la ferita al ginocchio. Io non potevo certamente trovare un luogo più adatto e più caro per sanare una ferita (comunque essa fosse) che la casa del marchese Raimondi; e la comparsa della fanciulla amata nella mia stanza (ciò che non avrebbe avuto luogo, se sano) mi faceva dimenticare ogni male. La donna poi è una vera provvidenza al capezzale dell’ammalato; l’uomo, per buono che egli sia, non può mai uguagliare la squisitezza delle cure femminine. Cosa sarà poi, quando queste cure sono dispensate da mano carissima ?

***
Anche qui, come nelle “Memorie” già pubblicate, Garibaldi si arresta; poi continua la narrazione delle gesta che dopo quel tempo si seguirono. Non un solo detto sul momento culminante del dramma; non una parola amara per la Giuseppina si trova, nè in quel punto nè in altri luoghi del manoscritto !
Che significa, domando ancora una volta,questo ostinato silenzio del Generale? Sentimento estremo di cavalleria, di generosità, verso la donna che lo avrebbe umiliato? Non lo credo. Garibaldi sapeva amare si, essere generoso coi suoi nemici, ma egli sapeva anche odiare; sopratutto sapeva non dimenticare le offese fatte al suo amor proprio, alla sua dignità.
Egli ebbe, è vero, parole roventi d’ira per la Raimondi; ma queste parole ebbe in un’altra epoca della sua vita quando si avvicinava alla morte; nei giorni della più grande amarezza, quando l’anima era esulcerata per non poter adempire a quello, che egli reputava suo sacro dovere: legittimare i due figli nati dalla Francesca Armosino, ostandovi le leggi per il vincolo contratto con la Raimondi, Parole amare si, egli ebbe nell’impeto della disperazione, quando avrebbe voluto prendere la cittadinanza svizzera, farsi… perfino turco (come ebbe a scrivere al Crispi), pur (di potere dare il suo nome a Manlio e Clelia ; in quei giorni tristi, in cui stava per compiere l’estrema umiliazione, inviare, egli, Garibaldi, una supplica al Papa; quando, non riuscendo, in nessun modo all’annullamento del matrimonio con la Raimondi, gli uscivano dall’anima apostrofi come queste: « E che m’importa che l’Italia abbia un governo codardo, e che vi siano dei magistrati che si chiamano preti? Lo ripeto: io legitimo i miei figli ».
Dopo la drammatica scena del 24 gennaio, il marchese Raimondi che, come dissi, aveva per Garibaldi una venerazione, ebbe a provare un dolorissimo colpo; e il forte disinganno patito era naturale che dovesse indurre il vecchio signore a mostrarsi severo verso la figlia. Egli la confinò, ancora convalescente del tifo, nel palazzo dell’Olmo a Como, ora di proprietà dei Visconti Venosta. Dopo qualche tempo la Giuseppina parti; ma quando Garibaldi fu ferito ad Aspromonte e condotto al Varignano, essa vi accorse per avere notizie sulla salute del glorioso caduto.
Il matrimonio fra Garibaldi e la marchesa Raimondi, rato e non consumato, fu nnullato venti anni dopo, nel gennaio del 1880,col consenso della marchesa; e tale consenso ella diede, solo quando furono smentite le ingiuste accuse che su di lei si erano fatte. Dal 1870, per dieci anni il Generale aveva messo su cielo e terra per raggiungere lo scopo, si era affaticato a scrivere lettere a consultare avvocati (leggasi in proposito pag.7 e eeg.).
Il pensiero di non potere leggitimare i due figli avuti dalla Francesca Armosino, lo rendeva infelice; e fu per l’intervento di giureconsulti come il Mancini, il Crispi, il Taiani, e sopra tutto per l’affettuoso interessamento di Re Umberto, al quale Garibaldi erasi rivolto, che il glorioso vegliardo potè trascorrere i due ultimi anni della esistenza coll’animo tranquillo, dare il suo nome a Manlio e Clelia. E pure senza il dramma di Fino, che spense di un colpo nel cuore dell’eroe una fiamma d’amore che tutto lo aveva invaso; se Garibaldi, che allora aveva 52 anni, pazzamente innamorato della giovine patrizia, avesse mantenuto il proposito in quei giorni manifestato, di trascorrere il resto della sua vita fra le dolcezze domestiche, forse la gloriosa spedizione dei Mille, che diede alla Patria dieci milioni di liberi cittadini; non sarebbe avvenuta e i destini d’Italia sarebbero mutati !

***

Ma la figura veramente tragica nell’episodio di Fino, colui che espiò più amaramente, forse perchè fu il vero colpevole, è quella di Luigi Caroli.

“Intorno a lui si formò, scrisse l’Abba, un’aria di avversione, di cui nulla bastava a compensarlo nè a fare chè non la si sentisse. A lui rimase fino all’ultimo l’accusa di avere lasciato compiere quella sorte di tradimento contro Garibaldi, o almeno di non aver fatto di più, perchè quelle nozze non fossero avvenute.
Ricchissimo, bellissimo, prode, anche ammirato, pure a non lungo andare, egli non potè più reggere. Era venuto il 1860 ! E allora gli amici suoi, la sua Bergamo, quante camicie rosse non diedero ! Egli non aveva osato andare a indossarne una nelle Due Sicilie, dove il cuore lo avrebbe spinto; anche volle poi, ma non gli riusci, giungere in Aspromonte. Eppure bisognava levarsi e fare; andare a morire o tornare con la gloria di qualche gran sacrificio compiuto. Ma dove ? Ma per chi? Con chi mai ?
“Quando scoppiò la rivoluzione in Polonia, egli senti la bell’ora, e vide la luce venirgli di là. E appena seppe che Francesco Nullo si preparava a partire per andare a dare l’aiuto garibaldino agl’insorti, egli offerse le sue ricchezze, il suo cuore, il suo braccio, si mise nelle mani di lui. Nullo, magnanimo, lo comprese.
e Sul finir dell’aprile del 1863, si mossero da Bergamo in quindici, di cui facevano parte sei che erano stati dei Mille.
Partiti da Bergamo, viaggiarono a tre, a quattro, divisi, in giorni successivi, per il territorio austriaco, e poi si riunirono in Cracovia. Di là passarono il confine, si congiunsero a un manipolo di francesi, e tutti insieme si misero in corpo coi polacchi. Francesco Nullo, col grado di generale, comandava i non polacchi, ventitrè in tutto, raccolti sotto il nome di legione straniera. Legione di spiriti li chiama l’Abba.
Luigi Caroli era l’aiutante di campo. Entrarono nel territorio polacco il 3 maggio; la mattina del 5 s’incontrarono coi Russi a Xrzykawka, sull’orlo di una boscaglia. Nullo ricordò ai suoi che ricorreva il terzo anniversario della partenza dei Mille per la Sicilia. Proruppero tutti in un grido di “Viva l’Italia e la Polonia” e stettero ad attendere che i nemici uscissero dal bosco per investirli alla baionetta. Ma i russi non si muovevano; continuavano a far fuoco di tra le piante, senza smascherare le loro forze.
Nullo cavalcava su d’un argine avanti e indietro, per tenere le file al riparo, sempre in attesa del momento opportuno a lanciarle. A un tratto, fu visto il suo ca­ vallo cadere ed egli rimanervi impigliato sotto. Soccorso, balzò su illeso. Solo il cavallo era stato colpito, ma pochi istanti appresso, mentre a piedi percorreva ancora l’argine, allargò le braccia, fece una giravolta su sè stesso e cadde senza mandare un gemito, con la testa verso il bosco, da dove gli era venuta la morte. Caroli, Mazzoleni, Testa, Venanzio, Cristofoli, corsero su di lui: era morto sul colpo. Una palla gli era entrata nel fianco sinistro, e, traversato il corpo dal basso in su, gli aveva rotto il gran cuore. La morte di Nullo determinò la ritirata. Dolorosissimo fu pei bergamaschi e pel Caroli il dover lasciare la salma del loro eroe, per portare in salvo sui pochi cavalli i feriti; il bel corpo baciato e pianto fu abbandonato là dov’era caduto. Ma non tutti poterono allontanarsi in tempo; Luigi Caroli, Andreoli, Venanzio, Giupponi, Arcangeli ed altri furono raggiunti dai cosacchi e fatti prigionieri, insultati e percossi. E fu fortuna che, in quel momento, capitasse il Generale Szachowskoi, il quale impedì che essi, già spogliati, fossero uccisi.
“Caroli, con altri nove rimasti prigionieri, fu condotto nella città di Varsavia, a giudizio militare. Condannati a morte, udirono con dignità la loro sentenza, e si afflissero della grazia venuta poi, senza che avessero chiesto nulla, e furono condannati ai lavori forzati per dodici anni e a perpetuo esilio in Siberia; cinquemila miglia da fare incatenati, e poi, per maggiore crudeltà, dispersi in prigioni diverse.
Nell’ergastolo di Kadaya, di là del lago Baykal, furono chiusi Caroli, Andreoli e Venanzio. Vi era già, o vi giunse poco dopo, lo scrittore Tschernichewsky, a cui dovette parere una cosa delle più grandi nella tragedia russa, che uomini partiti dalla terra del sole e della libertà, fossero andati a farsi condannare, come lui, nel suo servo paese. E li amò ! Ma come avrà anche compatito il Caroli, che parlava sempre nella sua certezza di rivedere la patria italiana! Eppure, egli l’avrebbe riveduta coi suoi compagni graziati nel I866 mentre egli Tschemichewsky sarebbe rimasto, come infatti rimase, a Kadaya venti anni. Neppure lo Czar, con tutta la sua Corte, poterono mantenere la loro condanna per quei generosi idealisti italiani. Ma la natura fu per il Caroli crudele più dello Czar.
“Non voglio morire, non morrò qui !” aveva sempre gridato il forte giovane, dacchè dopo il lunghissimo viaggio era entrato in quelle prigioni. Era stato mescolato, senza sua colpa, nella sventura di Garibaldi; aveva vissuto quattro anni con quell’amarezza nel cuore; forse non ne aveva mai parlato neppure ai compagni di catena, attreversando i deserti della Siberia, verso la meta orrenda, in quelle ore in cui il disfacimento del passato nella memoria gli doveva cadere addosso come una continuità di rovine.
Quanto dolore ! Ma la speranza non l’aveva mai abbandonato invano. Una febbre cerebrale lo assalì furiosa, e come fosse stata fuoco lo consumò cosi presto, che egli non seppe quasi neppure di morire.

“Sul petto del morto fu messa la sua catena e una corona di spine. Tutto quello che egli aveva goduto al mondo; tutto quello che avrebbe potuto godere, vivendovi ricchissimo e bello e robusto chi sa quanti altri anni, non era nulla al paragone di quel venerato simbolo di martirio, posto da gente che si era gettata nel baratro del dolore pei dolori altrui.
“La bara fu calata in una fossa profonda, scavata a gran fatica nella terra gelata su d’una montagna, quasi in faccia alla prigione; e sul tumulo fu piantata una croce, con in cima scritto :
A Luigi Caroli italiano
gli esiliati polacchi.

Quel Tristano aspetta ancora un poeta I
Ma poesie ve ne sono di tante forme; ce ne sono che non si fissano se non nel cuore di chi le ode da una voce viva, mentre che esse suonano, per morire poi in lui, con lui.

PAG.313 […]

i quell’affetto cosi prezioso.
Il vapore si allontanò infine, ed io credetti di dovere sforzarmi per dimenticare la bella figlia del Lago.

Passarono vari mesi. La guerra prima, ma più gl’intrighi dei miei nemici mi avevano occupato molto. Nell’Italia Centrale per affaccendato ch’io fossi, per quanto disgustato da tante contrarietà, suscitatemi più che dai nemici d’talia, dai paurosi dottrinari, e gettato ancora in una certa malinconia, cui fui propenso in ogni periodo della mia vita, non mancavo di volgere il pensiero alla bella ragazza, che mi aveva innamorato sulle sponde del Lago di Como.
“A Bologna vidi il Marchese un momento e le notizie della Giuseppina per me erano sempre un balsamo. Però, in mezzo alla idealità del mio affetto non vi era speranza fondata, Io non avevo da lei prove che potessero persuadermi di essere amato, e cosi me la passavo, ricordandomi dell’incantevole fanciulla, siccomedi un sogno felice della mia vita.

Mentre ero a Sestri, nel ritiro del signor Gastaldi, io ricevetti una lettera da lei, ov’essa mi diceva d’amarmi e che la facessi mia !
Io fui felicissimo a tale annunzio e non perdetti un momento per recarmi a Fino, ov’ella si trovava colla famiglia. Lasciai Sestri col mio amico Deiderj e giunsi a Fino nella mattina seguente.
Dopo un piccolo colloquio con lei e con suo padre, io scrissi ad essa, dipingendo esattamente la mia situazione: la mia età, la povertà mia, i legami che mi vincolavano ad altre donne, ed infine il mio naturale malinconico, non adeguato a giovine donna. Essa mi rispose di avere ponderato ogni cosa ed essere risoluta a quanto mi aveva manifestato. Allora io mi abandonai interamente alla mia felicità, e dimenticai, accanto alla cara donna del mio cuore, tutte le miserie d’una vita fastidiosa !
Un incidente, che poco mancò non divenisse fatale, mi successe dopo pochi giorni del mio arrivo a Fino. Cavalcando accanto alla bella fanciulla, forte, graziosa a cavallo come un’amazzone, il mio cavallo mi prese la mano e non fui più capace di fermarlo. Non conoscendo l’animale, seguitai per un pezzo la via diritta; avendo percorso cosi alcune miglia, lo obliquai a sinistra in un viale perpendicolare alla strada, alla fine della quale vedevo una casa, con la speranza di fermarlo, una volta arrivato a quella. Inutile fu il mio conato; perchè giunto alla casa mi accorsi che l’animale aveva poca voglia di fermarsi. Allora lo obliquai a sinistra: ma in quel movimento diedi la gamba contro il muro e mi fratturai la rotella del ginocchio destro.

Era ora di messa:tutta la gente di casa era andata in chiesa. Una donna che si trovava presente, si spaventò talmente che corse, gridando, a nascondersi e non la vidi più. Il cavallo non si fermò, se non dopo avere colpito da furibondo tutto quanto incontrava davanti. Feci alto finalmente in una stalla, dalla cui porta eravamo passati ambidue come per miracolo.
Uscito dalla stalla ripresi il viale, e vidi all’estremità di questo la Giuseppina, che mi aspettava in carrozza col resto della comitiva, composta dalle due sorelle, da Deidery etc… Io, mortificato, di non aver potuto padroneggiare il cavallo e credendolo stanco dalla corsa fatta, lo rimisi al galoppo: ma il focoso animale riprese il morso ai denti e di bel nuovo mi fu impossibile di arrestarlo. Giunsi dunque, a tutta carriera sul crocicchio di strada, ove m’aspettava la comitiva, e il primo urto lo diedi contro il timone della vettura, non avendo potuto obliquare abbastanza il cavallo per scansarla; poi vedendo davanti ame, prima un banco di pietre e dopo questo un cerchio di pioppi chiuso cosi, da non poter passare framezzo agli alberi, mi risolvetti di saltare da cavallo, ciò che feci più felicemente assai, che non dovevo sperare perchè saltai in piedi e non fui rovesciato dallo slancio; benchè avessi il ginocchio fracassato e altre parti contuse. Io fui superho del mio salto davanti ai compagni, e sopra tutto, alla vista di colei, che era divenuta il mio tutto !
Tanta fu la mia superbia alla cavalJeresca mia discesa da cavallo, di cui (lo confesso) non mi sarei creduto capace, che mi accingevo a rimontate ancora, quando il giovine Giorgio, fratello della fidanzata mia, s’interpose e non volle, chiedendomi di prendere posto nella vettura.

Io ero alquanto addolorato e meglio fu per me la vettura del cavallo. Tornammo immediatamente a casa, dove stetti diciotto giorni in letto per la ferita al ginocchio. Io non potevo certamente trovare un luogo più adatto e più caro per sanare una ferita (comunque essa fosse) che la casa del marchese Raimondi; e la comparsa della fanciulla amata nella mia stanza (ciò che non avrebbe avuto luogo, se sano) mi faceva dimenticare ogni male. La donna poi è una vera provvidenza al capezzale dell’ammalato; l’uomo, per buono che egli sia, non può mai uguagliare la squisitezza delle cure femminine. Cosa sarà poi, quando queste cure sono dispensate da mano carissima ?

***
Anche qui, come nelle “Memorie” già pubblicate, Garibaldi si arresta; poi continua la narrazione delle gesta che dopo quel tempo si seguirono. Non un solo detto sul momento culminante del dramma; non una parola amara per la Giuseppina si trova, nè in quel punto nè in altri luoghi del manoscritto !
Che significa, domando ancora una volta,questo ostinato silenzio del Generale? Sentimento estremo di cavalleria, di generosità, verso la donna che lo avrebbe umiliato? Non lo credo. Garibaldi sapeva amare si, essere generoso coi suoi nemici, ma egli sapeva anche odiare; sopratutto sapeva non dimenticare le offese fatte al suo amor proprio, alla sua dignità.

Egli ebbe, è vero, parole roventi d’ira per la Raimondi; ma queste parole ebbe in un’altra epoca della sua vita quando si avvicinava alla morte; nei giorni della più grande amarezza, quando l’anima era esulcerata per non poter adempire a quello, che egli reputava suo sacro dovere: legittimare i due figli nati dalla Francesca Armosino, ostandovi le leggi per il vincolo contratto con la Raimondi, Parole amare si, egli ebbe nell’impeto della disperazione, quando avrebbe voluto prendere la cittadinanza svizzera, farsi… perfino turco (come ebbe a scrivere al Crispi), pur (di potere dare il suo nome a Manlio e Clelia ; in quei giorni tristi, in cui stava per compiere l’estrema umiliazione, inviare, egli, Garibaldi, una supplica al Papa; quando, non riuscendo, in nessun modo all’annullamento del matrimonio con la Raimondi, gli uscivano dall’anima apostrofi come queste: « E che m’importa che l’Italia abbia un governo codardo, e che vi siano dei magistrati che si chiamano preti? Lo ripeto: io legitimo i miei figli ».
Dopo la drammatica scena del 24 gennaio, il marchese Raimondi che, come dissi, aveva per Garibaldi una venerazione, ebbe a provare un dolorissimo colpo; e il forte disinganno patito era naturale che dovesse indurre il vecchio signore a mostrarsi severo verso la figlia. Egli la confinò, ancora convalescente del tifo, nel palazzo dell’Olmo a Como, ora di proprietà dei Visconti Venosta. Dopo qualche tempo la Giuseppina parti; ma quando Garibaldi fu ferito ad Aspromonte e condotto al Varignano, essa vi accorse per avere notizie sulla salute del glorioso caduto.
Il matrimonio fra Garibaldi e la marchesa Raimondi, rato e non consumato, fu nnullato venti anni dopo, nel gennaio del 1880,col consenso della marchesa; e tale consenso ella diede, solo quando furono smentite le ingiuste accuse che su di lei si erano fatte. Dal 1870, per dieci anni il Generale aveva messo su cielo e terra per raggiungere lo scopo, si era affaticato a scrivere lettere a consultare avvocati (leggasi in proposito pag.7 e eeg.).
Il pensiero di non potere leggitimare i due figli avuti dalla Francesca Armosino, lo rendeva infelice; e fu per l’intervento di giureconsulti come il Mancini, il Crispi, il Taiani, e sopra tutto per l’affettuoso interessamento di Re Umberto, al quale Garibaldi erasi rivolto, che il glorioso vegliardo potè trascorrere i due ultimi anni della esistenza coll’animo tranquillo, dare il suo nome a Manlio e Clelia. E pure senza il dramma di Fino, che spense di un colpo nel cuore dell’eroe una fiamma d’amore che tutto lo aveva invaso; se Garibaldi, che allora aveva 52 anni, pazzamente innamorato della giovine patrizia, avesse mantenuto il proposito in quei giorni manifestato, di trascorrere il resto della sua vita fra le dolcezze domestiche, forse la gloriosa spedizione dei Mille, che diede alla Patria dieci milioni di liberi cittadini; non sarebbe avvenuta e i destini d’Italia sarebbero mutati !

***

Ma la figura veramente tragica nell’episodio di Fino, colui che espiò più amaramente, forse perchè fu il vero colpevole, è quella di Luigi Caroli.

“Intorno a lui si formò, scrisse l’Abba, un’aria di avversione, di cui nulla bastava a compensarlo nè a fare chè non la si sentisse. A lui rimase fino all’ultimo l’accusa di avere lasciato compiere quella sorte di tradimento contro Garibaldi, o almeno di non aver fatto di più, perchè quelle nozze non fossero avvenute.
Ricchissimo, bellissimo, prode, anche ammirato, pure a non lungo andare, egli non potè più reggere. Era venuto il 1860 ! E allora gli amici suoi, la sua Bergamo, quante camicie rosse non diedero ! Egli non aveva osato andare a indossarne una nelle Due Sicilie, dove il cuore lo avrebbe spinto; anche volle poi, ma non gli riusci, giungere in Aspromonte. Eppure bisognava levarsi e fare; andare a morire o tornare con la gloria di qualche gran sacrificio compiuto. Ma dove ? Ma per chi? Con chi mai ?
“Quando scoppiò la rivoluzione in Polonia, egli senti la bell’ora, e vide la luce venirgli di là. E appena seppe che Francesco Nullo si preparava a partire per andare a dare l’aiuto garibaldino agl’insorti, egli offerse le sue ricchezze, il suo cuore, il suo braccio, si mise nelle mani di lui. Nullo, magnanimo, lo comprese.
e Sul finir dell’aprile del 1863, si mossero da Bergamo in quindici, di cui facevano parte sei che erano stati dei Mille.
Partiti da Bergamo, viaggiarono a tre, a quattro, divisi, in giorni successivi, per il territorio austriaco, e poi si riunirono in Cracovia. Di là passarono il confine, si congiunsero a un manipolo di francesi, e tutti insieme si misero in corpo coi polacchi. Francesco Nullo, col grado di generale, comandava i non polacchi, ventitrè in tutto, raccolti sotto il nome di legione straniera. Legione di spiriti li chiama l’Abba.
Luigi Caroli era l’aiutante di campo. Entrarono nel territorio polacco il 3 maggio; la mattina del 5 s’incontrarono coi Russi a Xrzykawka, sull’orlo di una boscaglia. Nullo ricordò ai suoi che ricorreva il terzo anniversario della partenza dei Mille per la Sicilia. Proruppero tutti in un grido di “Viva l’Italia e la Polonia” e stettero ad attendere che i nemici uscissero dal bosco per investirli alla baionetta. Ma i russi non si muovevano; continuavano a far fuoco di tra le piante, senza smascherare le loro forze.
Nullo cavalcava su d’un argine avanti e indietro, per tenere le file al riparo, sempre in attesa del momento opportuno a lanciarle. A un tratto, fu visto il suo ca­ vallo cadere ed egli rimanervi impigliato sotto. Soccorso, balzò su illeso. Solo il cavallo era stato colpito, ma pochi istanti appresso, mentre a piedi percorreva ancora l’argine, allargò le braccia, fece una giravolta su sè stesso e cadde senza mandare un gemito, con la testa verso il bosco, da dove gli era venuta la morte. Caroli, Mazzoleni, Testa, Venanzio, Cristofoli, corsero su di lui: era morto sul colpo. Una palla gli era entrata nel fianco sinistro, e, traversato il corpo dal basso in su, gli aveva rotto il gran cuore. La morte di Nullo determinò la ritirata. Dolorosissimo fu pei bergamaschi e pel Caroli il dover lasciare la salma del loro eroe, per portare in salvo sui pochi cavalli i feriti; il bel corpo baciato e pianto fu abbandonato là dov’era caduto. Ma non tutti poterono allontanarsi in tempo; Luigi Caroli, Andreoli, Venanzio, Giupponi, Arcangeli ed altri furono raggiunti dai cosacchi e fatti prigionieri, insultati e percossi. E fu fortuna che, in quel momento, capitasse il Generale Szachowskoi, il quale impedì che essi, già spogliati, fossero uccisi.
“Caroli, con altri nove rimasti prigionieri, fu condotto nella città di Varsavia, a giudizio militare. Condannati a morte, udirono con dignità la loro sentenza, e si afflissero della grazia venuta poi, senza che avessero chiesto nulla, e furono condannati ai lavori forzati per dodici anni e a perpetuo esilio in Siberia; cinquemila miglia da fare incatenati, e poi, per maggiore crudeltà, dispersi in prigioni diverse.
Nell’ergastolo di Kadaya, di là del lago Baykal, furono chiusi Caroli, Andreoli e Venanzio. Vi era già, o vi giunse poco dopo, lo scrittore Tschernichewsky, a cui dovette parere una cosa delle più grandi nella tragedia russa, che uomini partiti dalla terra del sole e della libertà, fossero andati a farsi condannare, come lui, nel suo servo paese. E li amò ! Ma come avrà anche compatito il Caroli, che parlava sempre nella sua certezza di rivedere la patria italiana! Eppure, egli l’avrebbe riveduta coi suoi compagni graziati nel I866 mentre egli Tschemichewsky sarebbe rimasto, come infatti rimase, a Kadaya venti anni. Neppure lo Czar, con tutta la sua Corte, poterono mantenere la loro condanna per quei generosi idealisti italiani. Ma la natura fu per il Caroli crudele più dello Czar.
“Non voglio morire, non morrò qui !” aveva sempre gridato il forte giovane, dacchè dopo il lunghissimo viaggio era entrato in quelle prigioni. Era stato mescolato, senza sua colpa, nella sventura di Garibaldi; aveva vissuto quattro anni con quell’amarezza nel cuore; forse non ne aveva mai parlato neppure ai compagni di catena, attreversando i deserti della Siberia, verso la meta orrenda, in quelle ore in cui il disfacimento del passato nella memoria gli doveva cadere addosso come una continuità di rovine.
Quanto dolore ! Ma la speranza non l’aveva mai abbandonato invano. Una febbre cerebrale lo assalì furiosa, e come fosse stata fuoco lo consumò cosi presto, che egli non seppe quasi neppure di morire.

“Sul petto del morto fu messa la sua catena e una corona di spine. Tutto quello che egli aveva goduto al mondo; tutto quello che avrebbe potuto godere, vivendovi ricchissimo e bello e robusto chi sa quanti altri anni, non era nulla al paragone di quel venerato simbolo di martirio, posto da gente che si era gettata nel baratro del dolore pei dolori altrui.
“La bara fu calata in una fossa profonda, scavata a gran fatica nella terra gelata su d’una montagna, quasi in faccia alla prigione; e sul tumulo fu piantata una croce, con in cima scritto :
A Luigi Caroli italiano
gli esiliati polacchi.

Quel Tristano aspetta ancora un poeta I
Ma poesie ve ne sono di tante forme; ce ne sono che non si fissano se non nel cuore di chi le ode da una voce viva, mentre che esse suonano, per morire poi in lui, con lui.

PAG.313 […]