Il libro nero del Risorgimento mafioso Fra banche, killer e amici degli amici
Molte verità scomode in «Borbonici, patrioti e criminali» di Enzo Ciconte
Rino Cammilleri – Mar, 03/01/2017
Sono note le vicende di Liborio Romano, già ministro di polizia borbonico, che praticamente sdoganò la camorra per favorire l’ingresso di Garibaldi a Napoli e il cambio di regime. Non era una novità. Lo stesso Napoleone non si era affidato a un Vidocq per l’ordine pubblico e i servizi segreti? E gli americani non avevano tirato fuori di galera il boss dei boss Lucky Luciano per assicurarsi un atterraggio morbido in Sicilia? Bando ai moralismi, quando c’è una guerra in corso, di qualunque genere, intanto si bada a vincerla, costi quel che costi, poi si vedrà.
Il problema sorge quando questo «poi» non arriva mai. Comunque, l’intreccio tra Risorgimento, mafie, camorre e ‘ndranghete effettivamente ci fu e lo indaga Enzo Ciconte, che insegna Storia della criminalità organizzata all’università Roma Tre (in Borbonici, patrioti e criminali. L’altra storia del Risorgimento, Salerno Editrice, pagg. 174, euro 12). Per dare il polso di un clima più diffuso di quanto si potrebbe pensare basterebbe considerare l’emblematica risposta che Antonio Starrabba marchese di Rudinì diede a Leopoldo Notarbartolo. Quest’ultimo era figlio di un cadavere eccellente, Emanuele Notarbartolo, vittima del primo omicidio politico-mafioso del nuovo Regno d’Italia. Leopoldo chiedeva al marchese giustizia per il padre ammazzato.
E il marchese, che al momento era primo ministro, gli disse papale papale: «Ma se lei sa con sicurezza che il colpevole è Raffaele Palizzolo perché non lo fa assassinare?». Non male per un presidente del Consiglio. Il morto era stato direttore del Banco di Sicilia e sindaco di Palermo. Palizzolo, deputato, era sospettato come mandante. Motivo dell’astio: affari & speculazioni, nulla di nuovo sotto il sole.
L’assassinio (sul treno) fu eseguito, tra gli altri, dal mafioso Giuseppe Fontana, l’1 febbraio 1893. Latitante, fu convinto a costituirsi. Arrivò dal questore seduto nella carrozza del principe di Mirto (con tanto di stemma di famiglia sulle portiere) e accompagnato da uno degli avvocati più prestigiosi. Fu tutta una cosa di siciliani, visto che siciliano era anche Crispi (e di Rudinì) che nel 1890 aveva commissariato il Banco di Sicilia ed estromesso il Notarbartolo mettendo in moto una serie di eventi. Il processo, nel 1889, dovette essere spostato a Milano per legittima suspicione. Un ispettore di polizia fu addirittura arrestato in aula per aver depistato le indagini e occultato prove. Quando fu deciso l’arresto del Palizzolo, il presidente della Camera, Luigi Pelloux, dovette far sospendere le comunicazioni telegrafiche con la Sicilia per evitare che il Palizzolo venisse avvertito per tempo. Qualcuno osservò che Pelloux e Notarbartolo erano stati vecchi amici di famiglia. La difesa (il procuratore generale del re) la buttò subito in politica e lanciò uno slogan destinato a un lungo avvenire: «la mafia non esiste». Non era il solo. Anche alti gradi della magistratura convenivano che la «mafia» era una scusa per affondare avversari politici. Processo spostato a Bologna, Palizzolo condannato. Condanna annullata in Cassazione. Nuovo processo a Firenze, Palizzolo assolto.
La verità? «Che cos’è la verità?», disse Pilato a Gesù. Eccone uno scampolo: «I calabresi durante l’epopea risorgimentale sono descritti come fieri, orgogliosi, eroici perché si ribellano ai Borbone». Poi, dopo l’Unità, diventano «selvaggi, barbari, briganti perché fronteggiano le truppe italiane e si ribellano al modo di comportarsi dei piemontesi».