Márai, Posillipo e il presagio della fine
In libreria «Il sangue di San Gennaro», romanzo dello scrittore ungherese rifugiatosi a Napoli dal 1948 al ’52. Sandor Marai
NAPOLI – L’aria di Posillipo «sveltisce il cuore» diceva Domenico Rea parlando di me, un po’ per elogiarmi, un po’ per dire che chi come me viveva a Posillipo, della Napoli vera, la sua Napoli, non poteva conoscere gran che. Leggendo il romanzo di Sándor Márai Il sangue di San Gennaro (Adelphi, pp. 352, € 19, a cura di Antonio Donato Sciacovelli) ho pensato anch’io che l’aria di Posillipo abbia sveltito fin troppo il cuore dello scrittore ungherese, autore di Le braci e di molti altri romanzi. L’aria del suo Paese, in quegli anni sotto l’oppressione staliniana, non gli piaceva, tanto che, nel 1948 lo lasciò per la Svizzera, e da lì approdò esule a Napoli, dove rimase quattro anni fino al 1952, per emigrare poi negli Stati Uniti. Trovò casa a Posillipo, a Posillipo alto, sulla strada che scende verso Marechiaro. Io conosco bene quella zona dove più volte mi recavo a trovare una mia fidanzatina che abitava lassù. In quegli anni, gli stessi in cui arrivò Márai, Posillipo alto era come un paese appartato, lontano dalla Napoli città, era una Napoli addolcita, soffusa di una malinconia virgiliana, con molti giardini e molto verde, dove c’erano una pace e una tranquillità da romitaggio. Posso solo immaginare l’impressione che dovette fare a Márai e sua moglie appena arrivati, esuli e con pochi soldi, ma dovette essere a suo modo consolante.
Leggendo questo libro si avverte subito la simpatia che Márai immediatamente provò per la piccola gente del luogo, simpatia che in lui si trasformava in una speciale conoscenza, in uno sguardo comprensivo e ironico, sui vari tipi di umanità che incontrava proprio lì, a Posillipo: il vinaio, il trippaio, il pescatore, gente umile. E infatti il suo libro Il sangue di San Gennaro inizia con una serie di ritratti a dir poco idillici di questi personaggi minimi, che a me sembrano indicare più la sensibilità dello scrittore e la delicatezza del suo animo che la corrispondenza al vero, certo meno poetico di quanto a lui appariva. Ma sia pure poco realistici e molto idealizzati, quel che conta in questo caso è che sia stata Napoli a suggerire questi ritratti, è stata Napoli a inserirsi nello sguardo e nell’immaginazione dello scrittore, Napoli al di là delle sue reali miserie. E così in fila ci appaiono affettuosamente descritti lo spazzino che arriva alle sei del mattino a raccogliere l’immondizia, e «riceve in cambio tre caramelle e una manciata di mozziconi di sigarette» (!), il venditore di uova che dice continuamente «eccellenza» e coi suoi modi fa capire che «tra i suoi avi ci furono di sicuro gli spagnoli». Non appena va via, risuona nel giardino «il canto del postino» che annuncia il suo prossimo matrimonio «ed è felice perché è italiano».
Sandor Màrai
Intorno alla casa dello scrittore si avvicendano ancora turbe di ragazzini cenciosi, rachitici e mlaticci, «ma sono sempre belli». Ma il ritratto più bello, più poetico (e più inverosimile?) è quello del venditore di noccioline e della sua famigliola con i bambini, che consumano il pasto sotto un albero becchettando il cibo come uccellini, mentre gli uccellini scendono dai rami dell’albero e becchettano con loro le briciole rimaste. Bisogna leggere queste pagine sul venditore di noccioline per avere la nostalgia di una Napoli abbellita, che a me pare inesistente, ma forse c’è, (la si trova anche nel Cardillo della Ortese), c’è stata, se ha trasmesso a un esule intelligente e sensibile come Márai la sua poesia. Più generici sono i discorsi attribuiti ai borghesi, a un ammiraglio, un vecchio barone, un cavaliere, ma quel che colpisce è come questo romanzo, a differenza degli altri di Márai, abbia una trama appena accennata, esile, che racconta in una serie di saggi-monologo, a volte ridondanti, la condizione dell’esule e l’identità di cui si sente privato quando è costretto ad espatriare: «Cominciammo a capire che quando si lascia una patria si lasciano tutte le patrie possibili», e anche in una città come Napoli «che custodisce tutto ciò che vive», anche nella dolcissima Posillipo, per un esule la vita non è più possibile.
In questo libro che ha toni fortemente autobiografici e sorprendentemente profetici (perché il protagonista, come Márai alla fine della sua vita, si uccide), l’esule spiega come, per non avallare con la sua presenza l’odioso regime comunista, scelse la via dell’esilio e venne a Napoli. E in molte pagine si racconta come il comunismo distrugga l’interiorità delle persone, non solo la libertà, come le disgreghi a poco a poco e renda tutto privo di senso. «Bisogna redimere il mondo». Solo se si crede fortemente che l’uomo possa per un miracolo redimersi il mondo si salverà. Napoli «è l’unico luogo dove possono ancora avvenire i miracoli». Anzi possono essere programmati, come il miracolo di San Gennaro. Bisogna volere fortemente l’impossibile, come San Francesco. Ma il miracolo esige un sacrificio. Il suicidio del protagonista sarà questo sacrificio. Nell’ultima parte del libro un poliziotto incaricato delle indagini, un prete amico del suicida e la moglie cercheranno di spiegare come si è compiuta la tragedia e le circostanze per cui la balaustra di un belvedere ha ceduto, facendo precipitare lo scrittore che voleva redimere il mondo. Uno strano libro, diverso dagli altri di Márai, misterioso e accorato, autobiografico fino al punto di prefigurare il destino dell’autore.
Raffaele La Capria
25 ottobre 2010 «corriere della sera»
A PROPOSITO DELLE POLEMICHE SULLA DEPUTAZIONE DI SAN GENNARO
La religiosità è vera soltanto quando è ardente e gagliarda come l’amore o la collera. Quando è improvvisa, selvaggia, inquieta e dubbiosa. La religiosità può essere soltanto umana. Ma proprio come la vera collera, la grande passione, il vero amore sono fenomeni rari nella vita degli uomini. La maggior parte di loro deve accontentarsi di liti lamentose, di succedanei a buon mercato della passione, di alimenti d’infima qualità scartati nelle cucine dell’amore. Anche i grandi momenti, quelli in cui l’uomo può rivolgersi a Dio direttamente e senza mercanteggiare, sono rari. I napoletani ne sono consapevoli e si avvicinano ai santi con modestia, timorosi nel chiedere miracoli vergognosamente e grottescamente umani.
(Sàndor Màrai – Il sangue di San Gennaro)
di gigi di fiore del 6 marzo 2016