RICERCA EFFETTUATA SU “GOOGLE LIBRI” DAL LIBRO “COSE DI NAPOLI” Discorso del Duca di Maddaloni Deputato al Primo Parlamento Italiano -torino-1861
Da pag.5 A 14 (a cura del Prof. Renato Rinaldi)
AL CAVALIERE GIUSEPPE MASSARI
Deputato al primo Parlamento Italiana
A te, mio caro Massari, intitolo questo scritterello; perchè ti conosco indipendente, buono, tollerante. Io penso altrimenti che non faccia tu per le cose dell’Italia meridionale, e pur tuttavia mi rivolgo a te perocchè, sono certo, tu perdonerai alle mie parole, siccome perdono io alle tue, l’une e l’altre movendo da anime sinceramente libere e d’ogni velleità di plauso sdegnose.
Sta sano frattanto e credi
Torino, 6 aprile 1861
Al tuo amico
IL DUCA DI MADDALONI
Ho sempre portato opinione che, non altrimenti una falsa postura faccia ridicoli- gli uomini, il non sapersi o non volersi dire la verità, nella sua più verace essenza, intorno a que’mali che a’tempi nostri intravengano, fosse precipua cagione del non potervi applicar quel remedio che loro sarebbe a salute. Ed in fatti, quanto bene e securo provvederebbe alla guarigione di alcuno infermo quel medico che vi si affaccendasse, lui a studio ingannando e sè stesso? Quel medico il quale o pretermettesse l’analisi dei mali curati già da esso malato, o non sapesse la struttura del corpo studiarne? Le infermità non si accarezzano nè le accarezzeremo noi per certo, o della verace loro essenza taceremo: chè se il nascondere l’animo proprio la è brutta opera in uomini privati, in uomini deputati a posta per dichiararlo è mostruosa. Però io non oratore, io che per la irascibilità dell’indole, per una cotale emormosi delle fibre veggomi impedito di perorare, e sin poco adatto al disputare confessomi, qual che ella siasi, ho divisato scriverla l’opinione mia. Nè è già che speri poter trarre al mio povero avviso i tanti e preclarissimi ingegni onde si onora il parlamento mostro, ma perchè la coscienza quietasse, nè il mio nome avesse a goder di trionfi non suoi, o di non suoi torti a patire. Pur tuttavia, perchè nella espressione di essa e nello indicare il modo che solo parmi efficace alla pacificazione delle provincie meridionali dell’Italia nostra potrei venir sospetto di non grande amore per l’unificazione dello stato o di soverchio municipalismo appuntato (e dico soverchio per sincerità d’animo, perciocchè di uomini affatto digiuni di esso, io credo, non ve ne abbia punto), stimo opportuno significare tutta quanta l’opinione che io porto intorno alla novissíma rivoltura, e perché io che quantunque libero sempre e sempre pensoso del bene dell’Italianità, non posso glorificarmi dello aver tratto ferro per codesto rivolgimento o detto parola che il sospingesse, ne abbia poscia volentieri la necessaria sua conseguenza accettato.
L’unificazione d’Italia fu sempre la più naturale delle aspirnzíoni degli Italiani, i quali, purchè ella seguisse, non badavano mai nè al come n’è a chi la farebbe, fosse egli straniero come Arrigo di Lucemburgo o Carlo VIII di Francia od altro, fosse egli tiranno immanissimo siccome un Ladislao re di Napoli, un Cesare Borgia, un Bernabò Visconti. Ma tra perchè le opere umane vogliono, non altrimenti che i frutti della terra, la stagione loro per maturare, e perché i nostri padri andarono di gran lunga errati nel credere uomini piccioli poter fare cose grandi, ed uomini malvagi buone opere, la unificazione d’Italia rimase sempre, qual sogno fra gl’Italiani, e fu tenuta non molto più verificabile della Città del Sole del Campanella, dell’Isola di Utopia di Tommaso Moro, o della Oceania di lord Harrington, non altrimenti che, per le molte ed aspre diffalte, i partigiani suoi avuti in conto di ercadi fra ì politici: .
Ma, grazie alle stesse disfatte dei popoli italiani, grazie alla virtiù di una gran Casa (grande nella fede di cavaliero e nel valor delle pugne) e grazie non meno agli altri principi d’Italia, che, mentre i popoli gli volevano se non giusti, almeno italiani, incocciavano nello esser tedeschi;la unità d’Italia per tanti secoli indarno sospirata divenne subitamente non solo un fatto, ma la necessità vitale della esistenza sua. Io so bene come ci abbia di taluni i quali pretendono non della esistenza sua, ma necessità del momento sia essa: ma arrabattarsi a dirlo che giova? Quando in un paese tutte le campane suonano a stormo, che rintocchi, una a rilento, egli è a sperare ne sturbi l’armonia, o che sia intesa anch’essa un tantino? Bisogna aspettare quieti il tempestar di quei suoni per sapere quale di meglio si venga. Nè io dubito che, come Italia ricuperato avrà la capitale sua, e tutte le membra del bel corpo, quando il potere regio sarà pacificato col potere sacerdotale, quando la nobilissima delle nazioni europee sarà entrata nel suo letto geografico e politico, le nostre città s’informeranno ad una grande, ad una novella esistenza, che le antiche metropoli non patiranno carizia di popolazioni, n’è di ricchezze, nè di splendore. Conciossiachè le città grandi non siano tali perché fondate a ciò essere, o perchè sorgessero più anticamente delle altre. Esse, come tutte, vennero fuora quali prime e quali poi, e al par delle altre nacquero piccole,e se in processo di tempo diventavano grandi e forti, non fu pel fatto di principi o d’istituti, ma per peculiare condizione della loro postura. Adunque alloraché Roma sarà novellamente a capo della Italia nostra, ed in essa si assembrerà l’italiano parlamento, e vi converrà il Principe per prendervi la corona, e Vi siederà non meno il successore del Beato Pietro che dalla Italia impera su dugento milioni di coscienze, Milano sarà nell’alta Italia ciò che a tempi del romano imperio fu pure, la maggiore delle città subalpine, il centro del commercio con le Gallie e la Magna; Firenze, Bologna l’Atene, l’Alessandria delle nostre cantrade ; Genova, Venezia, Messina torneranno non meno prospere che in antico, saranno le nostre Tiro, Corinto, Sidone; Palermo la più diretta scala per Oriente; Torino sempre con devoto animo visitata dall’italo peregrino, essa la Nazaret di codesta novella Galilea; Napoli ciò che a tempo del Romano imperio era pure, il ritrovo di quanti italiani vorranno di più placido cielo godere e di terra incantevole e di ameni abitatori, il luogo di diporto e di riposo degli illustri tutti e dei grandi che per lo migliore della pubblica cosa dovranno alla città eterna recarsi.
Oltre a ció non antiveggo meno che, sendo le nazioni grandi e più che altre le marittime (e potenza marittima sarebbe di santa ragione l’Italia nostra, padrona,di tre mari) necessitate a procacciare sfogo alla loro industria nvon solo, ma a quell’ambizione di pigliare e di proteggere che mai non si scompagna dai forti, Italia non dismetterà le antiche sue mire, in quella per appunto che possiede a re principi di casa Savoia, i quali per il genio avventuriere della stirpe non sanno, al dir del Botta, “tenersi quieti a far niente”, principi generosissimi che quando erano conti annestavano borghi e castella a’loro feudi, quando duchi ducee, e quando re divennero regni. Però Italia, volendo spandar le ali, non può che sulla Morea, sul Peloponneso, per le coste d’Africa; nè questo suo natural movimento potrebbe meglio spiegare che, dal golfo partenopense, antica stanza delle dassi romane, ed in Italia piu centrale riposo si a quelle navi che vi riparano dai mari del Norte come a,quelle che vengonvi dal Sud.
Vedete bene come io, oltre alla sicurezza della indipendenza italiana, la quale verrebbe indubitatamente tutelata dalla unificazione, comprendessi a capello i vantaggi tutti di codesto ordinarnento, come io precorressi alle mire, ai desiderii dei più caldi nostri unitarii. Io non temo per Napoli, ma spero; ed il municipalismo mio, anziché farmi abborrire dalle presenti rivolture, mi sforza verso di esse.
Ma per conseguire tutti quanti questi beni, avrà a durare stagione: dappoichè le frutta dell’albero della libertà se belle e saporose, sono pur lente a crescere e più a maturare; né meno di esse sono tarde, quelle che colgonsi dalla formazione degl’imperi, opera lunga sempre e difficile, e che, pur troppo, meglio con la spada, di condottiero che con le dicerie della libertà si consegue. Né minore spazio, a parer mio, dovrà correre per riaver Roma senza offendere la cattolicità. E però, come ci avremo noi a governare frattanto, come avremo a pacificare le provincie meridionali, le quali, sia per natural talento degli abitatori suoi, sia per opera di fazioni, tanto osteggiano l’unificazione della penisola? Molti provvedimenti vennero dettati dagli onorevoli colleghi miei, molte cause furono parlottate (per cosi dire) intorno al malore che quelle provincie consuma, ma a parer mio nè queste cause sono le vere, né però i rimedii proposti efficaci.
Un chiaro e dotto, e, più che dotto, virtuoso pubblicista della patria mia, in un certo suo discorso sulla Situazione politica d’Italia opinava la rivoluzione nelle provincie meridionali essere stata estrinseca. Ma io non so accomodarmi assolutamente a codesta sentenza, dappoichè tengo i popoli del Napoletano essere stati l’avanguardia della rivoluzione italiana, la quale se in alcuna guerra o battaglia cade mortificata dalle armi nemiche, quando il rimanente esercito riporta vittoria, non si ha a dire non combattesse, e frodarla della gloria che la università dei soldati vendicavasi. Il fato di Leonida preparò la vittoria di Temistocle. Oltre a che i popoli del napoletano aiutarono grandemente la rivoluzione italiana col non mai acquetarsi alla tirannide, col protestar alto fra quei danni i quali essopativa; appunto perchè non aveva voluto venire a composizione con i Borboni, le libertà accettandone, ponendo giù l’ira e il pensiero, della italianità. Quando i principi della media Italia fuggivansi, riparavano sotto alle bandiere austriache, essi non avevano ancora riconceduto i liberali statuti ai loro popoli, o non dichiarato che combatterebbero contro lo straniero: ma a Napoli i Borboni, quando stranati dal regno, avevano riconceduto le libertà, si erano anco offerti a gir di brigata coi principi di Casa Savoia contro agli Austriaci acquartierati nella Venezia ed ai Merodiani che scorrazzavano per le Marche. Ma i Napoletani schifarono libertà ed italianità borboniche ed insorsero e vennero incontro al Capitano che aveva già ribellata Sicilia alla,dinastia di Carlo III.
Un movimento non puó estrinsecamente operarsi senza l’aita o almeno il consenso di chi il subisce, non altrimenti che non puoi mettere spada in vagina che ricusi schiudersi o vacilli. Ma dopo la discesa del Garibaldi declinava la rivoluzione. Essa non era, ma pigliava faccia di patita, anzi di sconvolgimento, e ciò, non per malo animo dei cittadini nostri, ma per la imperizia di chi erane preposto al reggimento, ma perchè alla tirannide dei borboni succedeva (dobbiamo pur addimandarla pel nome suo?) la tirannide dei fuorusciti; veniva in odio per gli errori del governo centrale, che credette l’agnella potesse papparsi il toro senza a mezzo il pasto crepare.
Il governo piemontese, a parer mio, doveva temporaneamente sicilianizzarsi, doveva stabilirsi in quelle nostre contrade e soprapesare alle parti dissidenti con tutto il pondo delle forze sue. Questai metamorfosi (se metamorfosi può dirsi l’ingrandirsi, non il tasformarsi affatto di un corpo) era necessaria, era vitale cosi alla meridionale come alla settentrionale Italia; nè già cessa di essere, anzi più e più stringe la necessità sua per il malo andazzo delle cose. Chi occupa alcuna terra deve porsi in essa per guardarla, se vuol gli rimanga. Codesto è dogma di storia, è stato osservato dai politici di ogni tempo, di ogni nazione. Ciò consigliava il Machiavelli a’principi che a’giorni suoi occupavano microscopici stati: e quanto nol consiglierebbe oggi in tanta mutazione d’Italia? Oltre a che io non mi terrà dal dir cosa cui prima forse non avrei voluto, ma che oggi mi è pure necessità di coscienza ricordare, cosa che parrebbe oltraggiosa alla gente del paese mio; e che per verità da’uomini di altra terra non vorrei udire, sendo la patria,non altrimenti che l’amanza, la quale se infedele, o malvagia noi vogliamo gridare e querelare; ma non tolleriamo ci sia detto. Io adunque ricorderò una sentenza del Guicciardini, che molto spiacquemi quando lessi, benchè, e forse appunto perchè, ne riconoscessi la giustezza, e la quale oggi mi occorre come tormento alla memoria, ed il povero mio spirito martella. Quel sommo uomo di Stato, quel politico invecchiato non solo negli studii ma nella pratica delle cose umane, parlando del reame di Napoli, diceva esso non tenersi mai in pace nè in fede che quando non abbia alcun pretendente cui darsi. Terribile verità,, ma verissima!
E questa presentirono tutti i principi che tennero il trono di Napoli per ragione di sangue, o che per pontificia investitura vi si insediarono. Arrigo VI imperatore, succedendo ai Normanni per diritto della moglie Costanza, tuttochè avesse morti o abbacinati od evirati gli eredi di Tancredi conte di Lecce ed i pretendenti tutti uscivansi del sangue di Hauteville, lasciò d’inprovviso il forte Stato del primo Federico, che dalle foci del Vesèro alle faldi delle Alpi Retiche si espandeva, ed impiantò nella Sicilia il governo suo. Federico II imperatore, battuti i principi tutti della Magna e tutte le ribellanti città di Lombardia e di Romagna, ma credette poter altrimenti conservar la Apulia, la Sicilia, che facendo l’Italia e la Magna provincie di quelle anzi che quelle provincia di queste. Carlo di Angioia francese,e però uscito dalla gente più amica alla propria terra, quando, assunto al trono di Napoli, benchè vi sedesse per sentenza della Romana Curia, atto del quale credevano afforttificarsi anche i principi più lontani, i re delle Spagne, d’Inghilterra, i quali tenevano per essa investitura santificato il poter loro, benchè avesse fatto della stirpe di Hohenstaffen quel governo stesso che della stirpe di Ruggero,aveva fatto, Arrigo VI imperatore, tuttochè possedesse la più bella, la più ricca parte di Francia e la più Civile a quei giorni, civile quanto Italia e più (secondo che afferma taluno) la Provenza, l’Angioia, il,Forcalcario, il Venassino, ed in Italia le contee di Nizía e di Tenda, credette non poter fermare l’autorità sua nella Italia meridionale, nè poter tenere in soggezione i ghibellini di Toscana e di Lombardia che facendo stanza a Napoli esso non solo, ma con lui i principali baroni di Provenza. Alfonso di Aragona lasciò quattro regni per serbarsi re di Napoli, e se il trono di esso preferi trasmettere a Ferdinando bastardo, piuttosto che a re Giovanni suo fratello, ció fu per consiglio di quel sapientissimo e fortissimo Diomede Carafa , il quale facevagli notare come più Facilmente andasse perduta l’opera sua passando melle mani di re Giovanni, spagauolo troppo e troppo fiero della avita signoria, che passando in quelle del bastardo, cui il padre non meno che il popolo tutto del napoletano aveva già avuto agio, di conosceere, nè certo tacevansi di qual natura avara e crudele si fosse. Carlo VIII per contrario credette aver tutto fatto nel prendere Napoli, nell’esservi stato chiamato, benedetto, plaudito, ed andò via, e peró, tuttochè, vincitore al Taro, non appena valicato aveva le Alpi, Ferrandino tornò nel regno, dai Napoletani con grandi feste incontrato; non men che con grande valore difeso, con un valore che credevasi spento per sempre negli eredi dei Campani e dei Sanniti.
Né è a dire come i Napoletani odiassero il governo vicereale. La casa da Habsburg, che possedeva le Spagne, la Frisia, la Belgica, la Olanda, il Portogallo, il Tirolo, il Milanese, la Sardegna, le Indie, che aveva tributarii, sì tributarii, tutti gli altri principi d’Italia, e perfino il Papa, che teneva Francia in angustia, stringendola il ramo di Spagna dai Pirenei e l’imperiale dal Reno; con grande spesa e maggior pena teneva Napoli (la quale non aveva allora pretendenti altri che i poveri e perseguitati duchi di Lorena, allora ciambellani del Cristianissimo) e però lo sublimava con titoli, ed adulava ,e palleggiava con un governo affatto autonomico, lasciandogli le sue leggi, i suoi parlamenti, le consuetudini e fin gli ambasciatori di parecchi potentati permettendovi risedere. I monarchi della Spagna cedettero alla Sicilia persino il dritto di pace e di guerra, abbandonarono i loro proregi al sindacato del parlamento. Non pertanto il governo vicereale vi era esecrato. Io non voglio qui sciorinare le rivolture e le ribellioni tutte che travagliarono in quej due secoli le Sicilie; ma solo ricorderò come quel frà Tommaso Campanella chiamasse sin il barbaro Turco per liberar dai civili Spagnuoli le sue contrade. Nè certo è a credere il Campanella, filosofo cristiano ed amatore ardente d’Italia, volesse impiantarvi i musulrnani, ma poneva mano a quest’arma sperando di quella conflagrazione avesse a nascer alcuna mutazione salutevole. Però non vo’ dire se bene o male si apponesse, ma sol ne inferisco quanto violento fosse l’odio contro al governo vicereale da far bramare a politici italiani la discesa di quei barbareschi, che erano il terrore di tutta cristianità. I governi non possono durare che quando consentiti, massime in questa terra meridionale, dove così vivace è l’ingegno e cosi mutabile il volere. I principi della casa di Aragona erano grandi re, valorosi, belli, cavallereschi, amici dei letterati, della civiltà, dei piaceri, larghi di lor pecunia ai popoli e di titoli e privilegi ai signori; ma essi avevano perduto la confidenza dei sudditi, erano mancatori di fede, e però, non ostante il valor proprio ed il valore dei baroni della parte loro, furono due volte stranati dal regno. Il conte di Lemos soleva dire a quei personaggi cui mandava a regger le sorti delle Sicilie
Con los nobles eres lodo
Sin los nobles eres nada.
In chi passasse, oggi la prepotenza dei magnati non è mestieri parlare, e però io dico ai ministri della Corona Sabauda di amicarsi i popoli delle Sicilie, perocchè senza quelli l’Italia ned essi saranno. Io so che tutto è venuto a bene sin ora quello che tentato abbia questo grande uomo di stato del tempo nostro, il conte di Cavour; ma vorrei ch’egli ricordasse pure una bellissima sentenza del nostro Gioviano Pontano, che anch’esso, era uomo di stato: “in utraque fortuna fortunae ipsius memor esto”.
Perchè dunque (non dico per sempre dappoichè sia fermo doversi andare a Roma), ma per poca ora dì tempo il conte di Cavour non trasporta a Napoli la sedìa del Governo? Ciò, mi fu detto, gli venisse con molta istanza consigliato da sapientissimi politici d’Inghilterra. Che può egli temere dalle provincie antiche? Un momentaneo dispiacere, un borbottare, un nonnulla.
Dalle provincie nuove? Tutto. La Lombardia è più che altra provincia d’Italia usa a sapersi digiuna di sua autonomia, nè per la ricchezza e civiltà sua ne disgrada, ed è poi tenuta in fede dal trattato di Villafranca, in pace dai troppo vicini Austrîaci. Toscana è più unitaria del Piemonte e dei politici suoi. Essa, madre, per dir così, dell’odierno fatto unitario, non distruggerebbe certo la figliuola sua. Oltr’a che, l’unità a nessuna regione si affà meglio che a lei per quella sua essenza che tanto bellamente un suo illustre addimandava piccinità. Le provincie che furono già della Chiesa, oltre all’essere state fin dallo scorcio del decimosesto ed anche del decimoquinto secolo provincie, sono troppo liete del vedersi franche dal governo clericale, nè saprebbero querelare che provvisoriamente il governo sedesse nella vicina Napoli, piuttostoché nella lontana Torino. Il Piemonte è stato fatto dai principi di casa Savoja, esso è ligio alla loro stirpe non altrimenti che il colono al padrone, nei tempi che le socialistiche idee non serpeggiavano fra gli uomini. Per contrario Napoli è esso che ha fatto i suoi principi, e però cerca dì continuo o crede poter di leggieri disfarli. Che dunque s’indugia? Perchè mettere in tanto pericolo tanta opera di gloria? Perché tremare anche di dirlo, ed a chi il dica far zitto?
Ma in Napoli, mi dicono alcuni, vi ha la parte borbonica: voi vorreste esporre a troppi pericoli il governo nostro. -A questa proposizione io risponderò con reciso niego. Non vi ha borbonici a Napoli; vi ha autonomisti, e questi bisogna convertire. A Napoli è popolare Garibaldi, perciocchè per esso il regno si sollevò a cacciare i Borboni e solo esso non sentivasi soggetto ad altra provincia d’Italia. I Napoletani corsero francamente al plebiscito tra per vedere compiuta la grand’opera della unificazione d’Italia, e perché non si pensavano il governo del Piemonte così poco conoscere Napoli da non intendere che fin quando non avesse potuto fermarsi a Roma dovrebbe a Napoli sedere per distruggere la vecchia macchina di corruzione impiantatavi dai Borboni e caldeggiarvi con tutte le sue forze la costruzione della macchina novella di giustizia e di moralità. Non vi ha Borbonici a Napoli, conciossiachè quelli che borbonici noi chiamavamo erano quei pochi licenziati a mal fare, ed essi sono quasi tutti fuora. I Napoletani che sono in casa, come ch’e’,pensino, sono si onorata gente da non poter volere rinnovellate le scene sanguinose del 99. Imperciocchè, dato pure che i Borboni tornandovi non volessero punto venirvi con idee di vendetta e di stragi (tuttochè, per dir vero, senza rancore, nel caso loro, non saprei tornarvi neppure io che nè di sangue regio sono; nè d’indole borbonica), dato che Francesco II rediente a Napoli ,venisse a ripetervi quella scena del Corneille, che moveva alle lagrime anche il poco tenero cuore del Principe di Gondé, che il figliuolo di Ferdinando II, non altrimenti che l’eroe del francese tragedo, voltosi al popolo napoletano, dicesse il famoso Cinna, soyons amis, e l’abbracciasse: ma quale sarà così mogio da non addarsi che con i Borboni non potrebbero non tornare i loro cagnotti ed accoltellatori, quelli che sono stati sbanditi per essi, e la reazione, la quale il Principe non vorrebbe, di per sé stessa iscoppierebbe, farebbesi non solo da quei molti che mal durano il presente sgoverno, ma forse delle stesse genti che al sorgere del novello, stato plaudirono si affortificherebbe, e le quali, per infermità dell’umana natura, persuasi del crudele animo dei signori, diviserebbero ingraziarsi con essi, la causa loro così disservendo, vi ha dunque degli autonomisti, ma non già dei borbonici, e quelli vedreste in un subito aggrupparsi tutti attorno il governo piemontese laddove colà si installasse. Il vascello della italiana unità non pò salvarsi dal naufragio che afferrando alle rive di Napoli.
Gravi errori, pessime opere vennero commesse fra noi, dai politici improvvisati dalla rivoltura; ma, ancoraché il governo pel quale quelle provincie si tribolano; migliore addivenisse che quello sognato da Platone, esso non saprà mai contentare quei popoli quando lontano, parrà sempre giogo straniero, ed il nome del passato regime tornerà di continuo a far fradicie le orecchie dei novelli signori non altrimenii che il nome e le virtú del morto marito sono di arma alla vedova per travagliare il secondo consorte. Ci ha dunque dei municipali a Napoli, e questi bisogna convertire, e non convertire con il foco del Santo Uffizio; ma con quello della carità. I popoli si vincono meglio con il carezzarli che con il batterli, e la polvere e il piombo piemontese hanno il colore stesso e l’odore della polvere e del piombo borbonici; nè con men tristo animo si entra una prigione perchè un vessillo tricolore vi sventoli al sommo.
I Popoli meridionali, usi per lunga tirannide a riguardare come nemico il governo, bisogna persuadansi i rettori, non per proprio bene ma per conservare la vitalità loro gli contengano. Che i consiglieri della Luogotenenza Napoletana affannino a scovrire orditi e congiure ed arrovellino del non poter pacificare,quelle contrade,
ché torna? Delle congiure bisogna bruciar la semenza, perché cessino, e ciò si fa tenendo un diritto cammino di governo, il quale non credo possa seguitarsi dal presente ministero che per verità tutto mi sembra fuor che ministero, nè tale può essere una brigata di egregi tolti in prestanza da questa o da quella parte, e capitanati da un gran diplomatico. Ma la diplomazia si usa bene per gli esterni rapporti dello stato: volerla fare anche per l’amministrazione interna, credo sia un gioco rovinoso.
Io ricordo, parecchi anni addietro, questi popoli del Piemonte non avere le libere istituzioni in quel grande amore che le hanno oggi. Gli è l’esperimento di esse, che fecele carissime. Fate dunque la mostra di un reggimento liberale, proficuo in quella povera parte d’Italia usa a vederlo sempre fallire. Certo a nessuno verrà in
mente doversi avere in non cale la causa di tanta e si nobilissima provincia. Conciossiachè una contrada popolata da nove qnilioni di abitatori, e questi prestanti della persona, dell’ingegno, dell’animo, adatti ad ogni bella disciplina, capaci di ogni grande pensiero, anzi nati a posta per i grandi pensieri, per le idee madri, rigenerafriai,e che non sa acquetarsi a bassi concepimenti o servizio,un paese ricco di ogni bene della natura, suscettivo di ogni progredimento, non è a dispregiarsi, non che da ordinarii principi o stati, da qualunque maggiore potenza del mondo. Chè dunque ristiamo innanzi ai pericoli grandi che ne minacciano, ai mali che abondano già da ogni banda, e simili ai dottori, ai neoplatonici della scuola alessandrina, ì quali nientre Costantiito Dragosate perdeva sulle mura di Costantinopoli con la corona la vita, ed il suo popolo.