Quel Nord predatorio sul Sud
Stefano Brusadelli –
Quando all’indomani dell’unificazione si fece il primo censimento del Regno d’Italia, si registrò nell’ex territorio borbonico un numero complessivo di occupati dell’industria pari a un milione e 189mila. Sommando gli operai di Lombardia, Piemonte e Liguria, non si arrivava che a 810mila. Nell’ex reame delle Due Sicilie, a Pietrarsa, in Campania, e a Mongiana, in Calabria, erano localizzati i due più importanti stabilimenti siderurgici della Penisola. Il solo opificio di Pietrarsa, all’avanguardia europea nelle costruzione ferroviarie, contava il doppio di addetti rispetto agli stabilimenti genovesi dell’Ansaldo. Ma già nel giro di un decennio la situazione si sarebbe più che ribaltata. E tutta l’industria del Mezzogiorno avrebbe conosciuto dapprima un forte ridimensionamento e poi la totale liquidazione.
Tra i tanti contributi sul drammatico ritardo del Mezzogiorno rispetto al Settentrione, questo del giornalista campano Riccardo Scarpa si segnala per l’ampiezza di documentazione e per la nettezza con la quale, scartando senza esitazione ogni banale interpretazione culturale o peggio ancora antropologica, si individua la causa della penalizzazione in una precisa scelta di politica economica compiuta dai savoiardi già all’indomani dell’impresa di Garibaldi. In nome di una logica predatoria di sapore coloniale, essi decisero che l’apparato produttivo del Sud, per tanti versi più avanzato e competitivo, andasse smantellato a vantaggio del Nord. I dati raccolti e ordinai da Scarpa sono convincenti. E travalicano lo stretto ambito industriale. Sempre dal suddetto censimento si apprende che nel Nord per tredici milioni di cittadini c’erano 7.087 medici, mentre nel Sud ne esistevano 9.390 per nove milioni di abitanti. La flotta mercantile borbonica era la terza in Europa, e i Cantieri Reali di Castellamare costituivano l’eccellenza mondiale per la fabbricazione di navi da guerra. Il Banco delle Due Sicilie, di proprietà pubblica, custodiva riserve auree per un miliardo e 200 milioni di lire contro i 20 milioni del Regno sabaudo, stremato dalle spese di guerra. Cosicchè alla spoliazione delle fabbriche si aggiunse anche quella finanziaria; sempre che, come una consolidata pubblicistica va sostenendo da tempo, non fosse stato proprio il calcolo di risanare a spese altrui un bilancio disastrato il vero motivo che spinse il conte di Cavour e gli inglesi – pesantemente esposti con banche piemontesi – a progettare l’attacco al florido ma militarmente poco organizzato reame meridionale. E quanto all’agricoltura, che nel progetto piemontese avrebbe dovuto sostituire l’industria, essa non riuscì mai a decollare, non solo per la scarsezza degli investimenti ma anche per la propensione del nuovo potere – diffidente verso le plebi meridionali tantopiù dopo la sanguinosa guerra contro il brigantaggio – a sostenere latifondisti per niente disposti a modernizzare la produzione coinvolgendo i contadini.
Tra i tanti spunti offerti dal libro (il titolo riprende una definizione di Camillo Prampolini) c’è anche la riproposizione di un vergognoso episodio della storia nazionale: la deportazione in veri e propri lager, primo dei quali il forte di Fenestrelle, in Val Chisone, di 40mila giovani meridionali che rifiutarono d’indossare la divisa del nuovo Stato.
Quasi tutti morirono per malattie o denutrizione. Una pagina sulla quale, in questi tempi di autocritiche, bisognerebbe tornare a riflettere.
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Riccardo Scarpa, Nordici e Sudici, prefazione di Stefano Folli, Diana
edizioni, Frattamaggiore (Napoli),
pagg. 268, € 15,00