MONGIANA. La fabbrica dove i Borboni sterminavano i calabresi
di ALDO VARANO
Pubblicato: 24 Settembre 2016
UNO. S’inaugura oggi 24 settembre il Museo della Mongiana. Ha fatto bene il sindaco di quel comune a lavorare per un museo moderno e ad alta capacità mediatica capace di testimoniare la storia drammatica di quel territorio. L’iniziativa è stata sostenuta dalla Regione ed ha trovato buona stampa (ricordo, uno per tutti, l’ampio servizio dei mesi scorsi di Romano Pitaro sul Corriere della Calabria).
Abbiamo bisogno, non soltanto in rapporto all’esercizio della memoria, di ricostruire il più correttamente possibile la nostra storia e le nostre radici per capire cos’è andato storto condannandoci ad essere sempre indietro rispetto allo sviluppo e ai punti alti della scienza e della tecnica dei tanti presenti storici che abbiamo attraversato quasi sempre da ultimi.
Il museo della Mongiana farà opera meritoria se s’impegnerà in un’operazione verità che tolga alibi al nostro presente ricacciando indietro il cascame ideologico delle pulsioni neoborboniche e regressive. Altra faccia, opposta e speculare, della rozzezza della Lega Nord e di apparati ideologici costruiti contro il Mezzogiorno.
DUE. Ed allora diciamolo esplicitamente: le fabbriche della Mongiana non furono l’esempio di una realtà felice e ricca poi cancellata dalla furbizia di Garibaldi e dei piemontesi.
Ma una posizione contro l’altra non vale nulla. Per ragionare servono ricostruzioni storiche fondate su documenti e apparati scientifici, non una memorialistica e presunti ricordi che selezionano tesi in polemica o a sostegno del nostro presente. Non so in quale contesto è collocata la citazione di Placanica (proposta da Pitaro) che riporto: «Dalle Serre il ferro, fucinato e lavorato con produzione fra l’altro di fucili e cannoni per l’esercito, veniva portato alla marina di Pizzo, e di qui avviato per mare ai mercati d’assorbimento…». Noto però che si tratta di un passo descrittivo, avalutativo, non connesso a giudizi di merito. Lo ricordo perché si deve proprio a Placanica, e alle sue capacità straordinarie di storico, la scoperta che le tanto decantate fabbriche borboniche di Mongiana fossero in realtà luoghi di morte, miseria e disperazione tenuti in piedi solo grazie a un meccanismo fondato cinicamente sulla scarsa considerazione della vita di chi ci lavorava e delle popolazioni di quei territori. Vite di migliaia di calabresi insopportabilmente accorciate e devastate da condizioni di lavoro terribili in cambio di salari inferiori al costo di quei tempi della sopravvivenza fisica.
TRE. Ma procediamo con ordine. Sulla Calabria borbonica e le fabbriche delle Serre e di Mongiana si è esercitata a lungo la retorica e la falsificazione delle classi dominanti spodestate e degli stessi Borboni che si preoccuparono di nascondere (ancor prima di perdere il Regno) fondamentali documenti ufficiali, prodotti da loro stessi, perché non giungessero ai contemporanei e ai posteri. Documenti che testimoniavano le condizioni tragiche della Calabria nascondendo anche che le fabbriche delle Serre e di Mongiana erano mattatoi per calabresi poveri dove si produceva in condizioni di terribile arretratezza (anche rispetto a quel tempo storico).
La scoperta del documento fondamentale su quella Calabria, che ha costretto gli storici a rivedere tutti i loro precedenti giudizi, fu proprio di Placanica che riscoprì l’originale e curò (1991) la prima edizione del “Giornale di viaggio in Calabria (1792) seguito dalle relazioni e memorie scritte nell’occasione” (ripubblicato da Rubbettino, a cura di Luca Addante nel 2008) di Giuseppe Maria Galanti. Galanti raffinato studioso sociale e autorevole personalità del regno borbonico, ultimo erede della grande epopea del Settecento illuminista napoletano, restò legato e fedele ai Borboni per tutta la vita e le sue relazioni sono quindi considerate un documento non pregiudiziale né settario. Fu tra l’altro il primo a utilizzare l’osservazione diretta e non “il sentito dire” usando dei veri e propri questionari per lo studio della realtà proprio durante i tre mesi del suo viaggio calabrese.
Nella sua fondamentale Storia della Calabria (Donzelli, 2002) Augusto Placanica, lo storico che ha meglio studiato nel Novecento la nostra regione e le sue radici, a proposito del Diario di viaggio del Galanti, fatto su richiesta e per incarico della “Real segreteria delle finanze” del governo borbonico nel 1792 (il documento serviva per una conoscenza reale delle condizioni della Calabria dopo il “tremuoto”), scrive: “Si tratta del quadro più ampio, acuto, più informato e significativo che un’intelligenza di livello europeo (il Galanti, appunto, ndr) abbia mai lasciato sulla Calabria”.
Subito dopo Placanica riporta due passi di Galanti strettamente connessi. Il primo: “Il popolo per le oppressioni che soffre è men facinoroso di quello che dovrebbe essere” e conclude: “La durata più lunga ordinaria della vita è fino a 70 anni”. E subito dopo: “Ferriere [di Mongiana] […]. La gente addetta a questi lavori ha corta vita: muoiono ordinariamente o ciechi o paralitici circa li 40 anni. Alla Mongiana ci sono fisse 200 persone. Le ferriere hanno soldati di custodia, e si passano al mese ducati 3,50. Per vivere agevolano il contrabbando e agevolano li mastri ferrari della Serra. Colla scarsezza di soldi il Fisco fa due mali: mina li suoi interessi e corrompe la morale de’ popoli”.
Placanica nota nella sua Storia che “le centinaia e centinaia di fogli manoscritti” in cui si “dipanano gli appunti e le riflessioni” del Galanti sono univoci e conclude: “Ormai, sul finire del Settecento, il mito della Calabria felice poteva considerarsi crollato come un castello di carte; solo in alcuni poteva residuare, ma come artificio retorico non più all’altezza dei tempi” (citazioni dalle pagine 298/300).
QUATTRO. E’ curioso che gli artifici retorici già vecchi a fine Settecento siano stati ripresi e rilanciati da suggestioni neoborboniche del terzo millennio le cui pulsioni si sono infittite con l’intensificarsi della crisi italiana e del Mezzogiorno e l’affermarsi del leghismo. Ma la storia non si ripete mai. Non siamo a una riproposizione della vecchia retorica: contrabbandare una situazione in cui il lavoro si mangiava e distruggeva più o meno la metà della vita media dell’epoca (ovviamente, al netto della mortalità infantile) per un’epopea di ricchezza e benessere, e spacciare la realtà della Mongiana come una specie di paradiso perduto o come la Calabria moderna ed evoluta che avremmo potuto avere, rischia di essere oggi molto più pericoloso che in passato perché lascia immaginare che le difficoltà del Sud siano dovute soprattutto agli altri, ai diversi, ai forestieri, ai cattivi che stanno fuori di noi.
Su queste suggestioni intrise di rancori, negli ultimi anni è nata una non storia della Calabria, una memorialistica da dilettanti del dopolavoro che prescinde interamente dai fatti e dalle necessarie categorie scientifiche per valutarli. Inutilmente storici di alto rigore, penso al calabrese Piero Bevilacqua e alla sua Breve Storia dell’Italia meridionale (Donzelli, 1993), che pure ha molto insistito sulle responsabilità nazionali rispetto alla condizione del Sud e della Calabria, ha avvertito che “sarebbe sicuramente ingiusto, oltre che storicamente infondato, sostenere … che il Nord si industrializzò a spese del Sud (pag 66) per poi concludere: L’”arretratezza del Sud non fu una condizione dell’industrializzazione del Nord”. Giudizi che si snodano in un quadro in cui Bevilacqua non manca certo di ricordare che “le economie industriali si avvantaggiarono non poco del contributo indiretto delle popolazioni meridionali” (pag 67).
CINQUE. Ma torniamo a Mongiana. La chiusura di quelle fabbriche non fu un gesto perfido di Garibaldi, ma neanche il segno di indignazione e rispetto umano verso popolazioni massacrate (non in senso metaforico) da un lavoro condotto in condizioni subumane. Come andò lo ricostruisce un altro importante storico meridionale, Alfredo Capone: “Il settore metallurgico, per contro, mostrava (in Italia, ndr) condizioni di grave arretratezza. La lavorazione del minerale del ferro, estratto in quantità modesta dalle miniere dell’Isola d’Elba, Val D’Aosta, Lombardia e Calabria, consisteva principalmente nella produzione di ghisa all’altoforno con carbone di legna. I principali stabilimenti erano ubicati in Calabria – stabilimenti di Ferdinandea e Mongiana – in Toscana, presso Pistoia, Pietrasanta e in Valdelsa, in Lombardia, nell’alta Valtellina, Valsassina, Val Brembana, Val Sertiana, Val di Scalve…. dopo l’Unità aumenta la tendenza all’importazione della ghisa, realizzandosi – osserva Romeo (lo storico Rosario Romeo, citato da Capone, ndr)- “appieno, insomma, le conseguenze della superiorità dell’industria straniera, in grado di far giungere nei porti italiani il prodotto a prezzi inferiori quasi della metà a quelli praticati da noi” (cfr. A. Capone, Economia e strutture dell’Italia unita, in Storia d’Italia, grandi opere Utet, volume 18, coordinamento scientifico Massimo Salvatori, ristampato in La biblioteca di Repubblica, 2004).
La chiusura di Mongiana fu coeva a quelle di analoghe fabbriche (spesso molto più moderne e meno mortali) sparse nel Centro-Nord d’Italia. Fu decisa quando si scoprì che quelle produzioni erano, oltre che dannose alla salute, ferrivecchi antiquati rispetto a quel presente storico, che producevano con costi doppi rispetto a quelli di altri paesi del mondo. Non chiuse solo Mongiana ma tutte le altre fabbriche simili diffuse nel paese, dalla Calabria alla Val D’Aosta. Del resto, perché mai avremmo dovuto tenere in piedi fabbriche che sterminavano i calabresi per produrre al doppio dei costi correnti dell’epoca?
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I Borboni tornano, acclamati dai calabresi, sul luogo dei loro delitti (di Pasquale Rossi)
Da Iacchite – 24 settembre 2016
di Pasquale Rossi
I Borboni tornano, acclamati dai calabresi, sul luogo dei loro delitti.
S’inaugura oggi, 24 settembre 2014, il Museo delle Ferriere di Mongiana alla presenza di Beatrice di Borbone, discendente della dinastia dei regnanti delle Due Sicilie.
Il Museo, finanziato dall’epoca da Mario Caligiuri con enorme dispendio di denaro pubblico, ambisce a raccontare la storia della fabbrica del ferro e della ghisa aperta dallo Stato borbonico nel 1771 in questo paese, ora in provincia di Vibo Valentia.
Il Museo – definito ad alta capacità mediatica, ma che in realtà è dotato dei soliti “totem” e di qualche altro inutile e costosissimo schermo per immagini digitali – avrebbe dovuto contenere le testimonianze, materiali ed immateriali, dei prodotti, dei modi di produrre, delle persone che vi lavoravano e, soprattutto, dello sfruttamento intensivo e indegno dei calabresi che vi lavoravano, come ricorda in un bell’articolo su Zoomsud, Aldo Varano.
Ma è stato, invece, concepito e realizzato quale elemento fondante, ma totalmente privo di qualsivoglia credibilità scientifica, di un revisionismo storico d’accatto in chiave neoborbonica.
Per stroncare sul nascere qualsivoglia tentazione revisionistica basterebbe leggere lo storico del ‘700 Giuseppe Maria Galanti che, inviato proprio dai Borboni in Calabria dopo il disastroso terremoto del 1783, nel suo “Diario di viaggio”, descrive la vita, il lavoro ed i lavoratori della Ferriera di Mongiana in questo modo.
“La durata più lunga ordinaria della vita [in Calabria] è fino a 70 anni … La gente addetta a questi lavori ha corta vita: muoiono ordinariamente o ciechi o paralitici circa li 40 anni …Le ferriere hanno soldati di custodia, e si passano al mese ducati 3,50. Per vivere agevolano il contrabbando e agevolano li mastri ferrari della Serra… Colla scarsezza di soldi il Fisco fa due mali: mina li suoi interessi e corrompe la morale de’ popoli”.
Per riassumere: la Ferriera era un luogo infernale nel quale vennero sfruttati, a morte, migliaia di calabresi dal predatorio, vessatorio e sommamente inefficiente Stato borbonico.
Altro che vantarsi e gloriarsi di un presunto primato industriale, altro che lamentarsi del presunto smantellamento dell’apparato produttivo calabrese da parte di Garibaldi e dei Savoia! La fabbrica di Mongiana, alla metà dell’800, non solo era letale per i lavoratori, ma non era economicamente vantaggiosa a causa del dimezzamento del costo del ferro e della ghisa d’importazione.
Sono queste ultime le ragioni per le quali la fabbrica di Mongiana, insieme a molte altre in tutta la penisola, fu dismessa e non perché si voleva perpetrare una rapina a danno dei calabresi e del Mezzogiorno a vantaggio del Nord.
Il sindaco di Mongiana, Bruno Iorfida
E ora, dopo più di 150 anni, il sindaco di Mongiana – con tutta probabilità discendente di quegli operai che morivano a meno di 40 anni, ciechi o paralitici- accoglie con tutti gli onori la discendente, Beatrice di Borbone-Due Sicilie, degli sfruttatori, degli aguzzini dei suoi ascendenti?!
La Regione Calabria dovrebbe, almeno, smetterla di finanziare, spendendo centinaia di migliaia di euro, questo genere di cialtronesche operazioni pseudo-storiche che alimentano, per sovrapprezzo, un sentimento di ingiustificato rivendicazionismo delle popolazioni calabresi e meridionali nei confronti del Risorgimento, dell’Unificazione, del Nord, dello Stato e di tutte, indiscriminatamente, le classi dirigenti senza mai, dico mai, provare ad assumersi le proprie responsabilità come cittadini meridionali e calabresi.
La responsabilità del sottosviluppo economico e sociale non è, forse, soprattutto nostra, dei meridionali e dei calabresi che, in sessant’anni di regime democratico, non sono stati capaci di affrancarsi eleggendo e creando una classe dirigente, non solo politica, degna di questo nome?
Beatrice con il busto che ritrae Ferdinando II soprannominato Re Bomba per le sanguinose repressioni dei moti liberali e di popolo
Mongiana, inaugurazione del museo con infamie raccontate da un giornalista ignorante
Domenica 25 settembre 2016
Leggere tanta infamia su un giornale on line corredata da tanta ignoranza , oggi è veramente incredibile, verrebbe da chiedere a questo giornalista: “mi mostri le prove delle infamie che sta scrivendo”, non potrà rispondere perchè sono tutte fandonie di regime che possono essere sconfessate in qualunque momento.
I Borbone che creano il primo regolamento sul lavoro di 8 ore, la trattenuta sulla stipendio da restituire come pensione ecc. sarebbero tiranni? E i Savoia che portano l’orario di lavoro a 12 ore con mezzo stipendio cosa sono?
Per non parlare del discorso re bomba che sparò solo un colpo di cannone senza fare danni, mentre il suo pupillo savoiardo fece una strage a Genova e ne conservano ancora le palle nel muro delle case, o la strage del pane a Torino ecc ecc. Il nostro segretario Michele Ladisa ha saputo spiegargli la verità in poche righe, sperando che il giornalista capisca il suo errore…
Si sa che per certi elementi di parte vale il vecchio proverbio che lavare al testa all’asino si perde tempo acqua e sapone.
Lasciamo la Parola al Segretario de Movimento Duosiciliano Michele Ladisa
Mettiamo pure che fosse proprio ciò che ha scritto il Rossi a proposito di Mongiana e dei Borbone, facciamo finta di non conoscere le contestuali savoiarde condizioni sociali dell’epoca, del regno bancarottiero e guerrafondaio di Piemonte e Sardegna. Si può spiegare con la stessa enfasi e considerando il progresso della tecnica e della sicurezza sul lavoro di oggi, cos’è l’attuale ferriera di Taranto per lo stato italiano e per un meridionale come il Rossi? In 13 anni (dal 1998 al 2010) sono morte a Taranto 386 persone per colpa delle emissioni industriali, non passa mese che muoia un operaio lavoratore (l’ultimo il 17 settembre scorso), l’intero territorio, mare compreso è inquinato. Si respira merda 24 ore al giorno e gli effetti incidono in un raggio di 200 km.
Questa è l’Italia che riconosce ed esalta i Savoia e che se ne frega di tutto il sud. Questa è l’Italia che piace al Rossi e che sputa sui Borbone, che punta il dito sulle condizioni di lavoro in una fabbrica di un’epoca lontanissima e che omette di parlare degli eccidi di massa perpetrata dai Savoia alle popolazioni del sud, compreso degli operai di Mongiana. Rossi, classico ignorante che fa della storiografia scritta dai vincitori il proprio vangelo, non sa che i macchinari della ferriera di Mongiana furono “rubati”, trasferiti i a Genova per poi diventare Ansaldo. Perché i Savoia non si sono limitati a tenere in loco quella ferriera, migliorandone le condizioni sociali e stabilizzando il lavoro? Si è mai chiesto il Rossi come mai i nostri avi e tutt’oggi i nostri ragazzi, emigrarono e continuano a emigrare al nord in 155 anni d’unità imposta dai Savoia? Questa non si chiama “oppressione”, vero sig. Rossi? SI è mai chiesto il sig. Rossi come mai l’emigrazione di milioni di cosiddetti meridionali sia partita proprio dall’unità d’Italia e non prima quando governavano i Borbone? Si documenti meglio il sig. Rossi prima di scarabocchiare articoli vergognosi.
Articolo su Mongiana
Rocco Michele Renna
http://briganterocco.blogspot.it/2016/09/mongiana-innaugurazione-del-museo-con.html?m=1